Repubblica 8.5.16
Metterci la faccia
Un tempo furono i ritratti ora sono selfie ed emoji Perché rincorriamo il volto?
Nessuno pare in grado di descrivere compiutamente un viso a chi non l’abbia visto mai
È perché visi e parole sono ai due estremi delle possibilità espressive umane
di Stefano Bartezzaghi
La
labirintica non-fiction dei misteri d’Italia ha contemplato un
personaggio fantomatico, a lungo noto soltanto con il nomignolo, o la
descrizione, di: “Faccia da mostro”. Così pentiti, testimoni, discussi
collaboratori di giustizia come Massimo Ciancimino si riferivano a un
probabile agente dei servizi e quasi certo depositario di segreti
attorno ai rapporti fra apparati statali e criminalità organizzata.
Infine, nel febbraio di quest’anno, in un’aula giudiziaria un testimone
puntò il dito contro l’imputato Giovanni Aiello e disse: «Faccia da
mostro è lui».
L’episodio è eccezionale per motivi di ordine
differente: la sua importanza non solo giudiziaria ma anche storica; le
caratteristiche fisiognomiche del volto di Aiello, sfigurato e reso
«indimenticabile » (a detta di chiunque lo abbia incontrato) da un colpo
di arma da fuoco.
Possiamo prendere questo caso come la
manifestazione acuta di una sindrome che riguarda, sempre, i rapporti
fra il volto e la parola: i due sensi principali della parola
“espressione”. A tali rapporti la semiologa Patrizia Magli (allieva di
Umberto Eco e docente alla Iuav di Venezia) ha dedicato una riflessione
più che ventennale ed è ora giunta ad approfondirne i risvolti letterari
nel Volto raccontato. Ritratto e autoritratto in letteratura (Raffaello
Cortina editore, pagg. 272, 16 euro).
«Metterci la faccia»:
diffuso oramai in proporzioni epidemiche e fino al fastidio, il luogo
comune segnala come un discorso, un’azione, un progetto riceva un
sovraccarico di senso e di intenzione quando il suo autore impegni
esplicitamente la propria soggettività. Quando «ci si mette la faccia»
si accetta il rischio di perderla, almeno in teoria. I tratti del viso,
nel loro assieme e con le loro mutevoli espressioni, costituiscono
infatti il punto di massima individualità per ognuno di noi. Il
linguaggio verbale, invece, procede per categorie e non riesce a
giungere agli individui se non attraverso parole a statuto speciale,
come sono i nomi propri. Non è allora per insipienza e insufficiente
competenza linguistica che nessuno pare in grado di descrivere
compiutamente una faccia a chi non l’abbia vista mai: è perché facce e
parole sono ai due estremi delle possibilità espressive umane.
Tornando
alla criminologia, identikit e photofit sono dispositivi
dichiaratamente approssimativi. In compenso, il riconoscimento visivo di
un volto noto è spesso immediato, anche quando questo volto non si
offre perfettamente delineato alla nostra percezione.
Il “viso”
etimologicamente è ciò che è “visto” e la descrizione di un viso è la
sfida che la lingua, e in particolare la scrittura, muovono a quanto di
individuale e perciò ineffabile rende unico ogni viso. Come le
affascinanti analisi di Magli mostrano con abbondanza di testimonianze
ed esempi, la letteratura ha percorso diverse vie per ottenere
l’evocazione più suggestiva dei tratti fisiognomici, e dei caratteri
individuali di cui gli stessi sono fatalmente espressione.
Ma
altre facce e faccette, e proprio negli stessi giorni di uscita del
Volto raccontato, hanno dato da pensare, in rapporto con la scrittura.
Sono quelle che si sono chiamate variamente smiley, e poi emoticon e
infine emoji: le stilizzazioni grafiche che ottenevamo da principio
assemblando segni di punteggiatura e che ora ci sono fornite ready made
da programmi e applicazioni. Le usiamo per integrare i nostri messaggi —
sms, post e simili — , per segnalare lo stato d’animo in cui li abbiamo
scritti e anche per renderli più divertenti. Così aggiungiamo allo
scritto qualcosa che gli manca: l’intonazione, il sorriso, il cruccio,
il corpo di chi lo produce.
Da poche settimane un pool di studiosi
del Minnesota ha diffuso i risultati di una ricerca che escludeva
«scientificamente » che tramite gli emoji si possano superare le
differenze linguistiche. Non saranno le faccette, insomma, a costituire
«l’inglese del futuro ». In Minnesota hanno così laboriosamente appurato
ciò che si deduce, più comodamente e con molto più profitto, dalle
storie della scrittura e dagli studi di Umberto Eco sulla Ricerca della
lingua perfetta (Laterza, 1993) o di Caterina Marrone sulle Lingue
utopiche (Stampa Alternativa, 1995). Il problema delle emoji è che la
loro interpretazione è tutt’altro che univoca: la risata potrebbe essere
cordiale, oppure ghignosa; una goccia può essere sudore o lacrima e
quando una emoji cerca di trasmettere un contenuto appena più articolato
il rischio di fraintendimento diventa massimo. Come se non bastasse,
ogni piattaforma adotta un diverso repertorio di emoji, così che alla
vagheggiata lingua universale spetta fin dai suoi esordi un’inesorabile
Babele.
La faccia è la più espressiva delle icone: come e più di
tutte le icone non sottostà a una vera e propria grammatica e dunque
autorizza l’illusione di essere universalmente decifrabile. Ma non
appena si prova a sostituire le parole con le faccette emergono
incongruenze speculari a quelle che rendono le espressioni verbali
insufficienti a evocare espressioni fisiognomiche.
La criminologia
può procedere da una descrizione sommaria (ma condivisa) come: «Faccia
da mostro » per pervenire a un nome proprio, cioè alla caratterizzazione
linguistica e sociale di un individuo. La letteratura può partire da un
nome proprio per giungere a una descrizione. È il caso di Lolita, il
cui nome entra in scena come prima parola del romanzo di Vladimir
Nabokov («Lolita, luce della mia vita, fuoco dei miei lombi...») e
subito si frammenta («...Lo-li-ta: la punta della lingua compie un
percorso di tre passi sul palato per battere, al terzo, contro i
denti»). Il nome è una «faccia» letteraria, che la scrittura può
ritrarre soltanto mettendo in fila i suoi dettagli più caratteristici.
Il narratore di Nabokov compie così una descrizione somatica
(linguistica ed erotica al tempo stesso) non del personaggio ma del suo
nome e di ciò che gli organi fonatori devono fare per riprodurlo:
l’ultima sillaba del nome finisce contro la chiostra dei denti, soglia
simbolica fra il dentro e il fuori.
Dopo aver tratto esempi da
opere di ogni tempo e luogo, Patrizia Magli finisce proprio con Lolita e
mostra come nello sforzo di farsi visivo il linguaggio incontra il suo
limite. La scrittura diventa allora traduzione non di una percezione
diretta o di un’immagine ricordata ma del linguaggio interiore che a sua
volta traduce tale percezione o memoria. Dalla faccia vista, a quella
ricordata e al sentimento che ha ispirato. Così, ripiegando verso
l’interno — cioè: ritraendosi -, il linguaggio riesce a iscrivere in sé
un volto — cioè: a ritrarlo.