Repubblica 8.5.16
Da Platone all’icona sacra cosa cerchiamo dietro l’immagine
di Silvia Ronchey
La
figura non è quella che si guarda ma quella da cui si è guardati Ci
attrae verso un’altra dimensione e ci avvicina all’enigma dell’essere
La
nostra società sperimenta un’inflazione e deformazione di ciò che
chiamiamo volto. Nel narcisismo dei selfie, nel flusso di immagini che
da Facebook a Instagram circola incessantemente nei social network, il
mondo è pervaso da un’ansia di autorappresentazione istantanea, invaso
da una piena di facce. I monumenti delle città d’arte sono irti di
venditori di bastoni allungabili, prolunghe telescopiche offerte ai
turisti per scattare selfie a maggiore distanza, allontanando di qualche
spanna il telefonino dal volto, nella speranza di fornire di sé
ritratti più “distaccati”, più proporzionati, più oggettivi. Ma dov’è
l’oggettività di un volto? Più in generale, di che cosa parliamo quando
parliamo di volto?
Tra tutte le immagini ( eikones nel greco
antico, icone, parola abusata nel mondo contemporaneo, profondamente
aniconico in realtà, come quanto meno la sua arte dimostra), quella del
volto ( vultus, dal supino disusato vultum del verbo volo, volere) è
insieme la più sacra e la più falsa. Nella concezione platonica, che si
riflette e perfeziona nella teoria bizantina dell’icona, l’unica
rappresentazione di un volto umano, o antropomorfo, che non sia
illusoria, sfuggente, vacua e perciò sviante, idolatrica, perfino
diabolica ( dia- bolos da dia- ballo, lo sviatore, l’obliquo) è quella
che conduce alla rappresentazione di qualcosa che è al di là della
mimesi dell’apparenza, per definizione contingente e ingannevole.
Proprio la totale falsità di ogni riproduzione letterale del volto
impone la creazione — laboriosa, complessa, necessariamente artistica —
di ciò che per l’arte sacra è un “volto santo” e per l’arte profana un
“ritratto” nel senso più alto del termine, la cui “sacralità” sta nel
superamento del significante per raggiungere l’universalità del
significato archetipico.
È sacro o “santo” (“sancito”,
“necessario”) quel volto che nei suoi tratti rinvia a “un altro mondo”
rispetto a quello dei fenomeni: al mondo delle idee, all’iperuranio di
Platone, al regno dei cieli nella filosofia dell’immagine cristiana, o
alle profondità della psiche. L’estrazione dalla raffigurazione umana
dei tratti di un volto santo è resa possibile da un processo di
astrazione che depura l’immagine dei suoi caratteri naturali e trasforma
il viso ( visus, da video, ciò che è visto, dunque di per sé
menzognero) in volto (ciò che è prodotto da una voluntas di
rappresentazione).
Dalle maschere tribali a Monna Lisa passando
per le icone bizantine e prima ancora per le rappresentazioni vascolari
greche — dove solo nel ritratto del morto è lecita la figurazione
frontale degli occhi, fissi in quelli della gòrgone — ciò che denota
questo volto è lo sguardo. L’immagine “vera” non è quella che si guarda
ma quella da cui si è guardati, il cui sguardo ci attrae verso un’altra
dimensione, ci avvicina all’enigma dell’essere, porta lo spettatore ad
astrarsi dai tratti fisici per transitare, attraverso quel tramite,
squarciando quel velo, varcando quella soglia, dalla facilità della
facies (l’apparenza superficiale) alla complessità dell’idea (l’immagine
mentale, la rappresentazione interiore di un eidos profondo).
Dal
che appare chiara la fallacia dell’espressione “metterci la faccia”. Ci
metto la mia faccia, la mia facies, la mia apparenza illusoria, la mia
superficie: e allora? Per metterci qualcosa, al contrario, dovrei
sottrarre la mia facies e aggiungere alla pluralità di immagini false,
di eidola, di moltiplicazioni del mio visus che affollano i media, il
perentorio invito che è proprio della “vera” immagine, la voluntas che
esprime il mio volto: superate la faccia, cercate l’idea.