Repubblica 8.5.16
I magistrati e il diritto-dovere di schierarsi al referendum
di Armando Spataro
procuratore della Repubblica di Torino
Armando Spataro, 67 anni, pugliese, è procuratore della Repubblica di Torino
CARO
direttore, ebbene sì, lo confesso: ho aderito da subito al Comitato
promotore per il “No” in vista del referendum confermativo della recente
riforma costituzionale. E non basta: l’ho fatto anche per il “No” alla
riforma bocciata nel giugno del 2006, allorché ho girato l’Italia in
ogni possibile weekend, parlando di fronte ad ogni tipo di uditorio.
Grazie ad una capillare opera di informazione, vinse il “No”, con il
61,3% degli oltre 25 milioni di votanti.
AVENDO qui confessato
queste colpe, potrei oggi essere accusato, secondo un pensiero che si va
diffondendo, di appartenenza ad associazione per delinquere, con la
qualifica di promotore e con l’aggravante della recidiva specifica:
sembra, infatti, che sia quasi illegale che i magistrati possano
“schierarsi” in un referendum di natura costituzionale. Tradirebbero, si
dice, la loro terzietà e così confermerebbero la loro politicizzazione,
una tesi di assoluta infondatezza. Dico subito che questo
diritto-dovere di “schierarsi” non ha nulla a che fare con la contesa
partitica- politica che si sviluppa nei periodi di campagna elettorale
ed alla quale, certo, i magistrati devono rimanere estranei, come
prevede anche il nostro codice deontologico. Qui si tratta, invece, di
un diritto costituzionale di cui anche il magistrato — come ogni
cittadino — è titolare e che viene oggi contestato, in misura ben più
dura di quanto avvenne nel 2006, quasi che una “militanza civica”
comporti rinuncia alla propria libertà morale e di giudizio, quasi che
una simile testimonianza abbia il significato dello schierarsi “contro”
qualcuno, piuttosto che “per” valori e principi. Bisogna invece
chiedersi perché mai un premier debba proporre una interpretazione
impropria del referendum governativo: “per me” o “contro di me”,
annunciando l’impegno di dimettersi in caso di vittoria del “No”! Perché
mai questa scelta, visto che si tratta di una riforma voluta da una
oscillante maggioranza di governo e non certo da un vasto schieramento
trasversale, politicamente e culturalmente solido? La risposta pare
risiedere nelle modalità di comunicazione per spot e tweet che l’attuale
contesto storico sociale sembra imporre, sicché conviene — secondo
alcuni — proporsi ai cittadini invocando fiducia nella propria immagine e
nella propria capacità manageriale (con brand del tipo: “meno spese e
tempi rapidi per le leggi! Via i laccioli del bicameralismo che
compromettono la governabilità del paese e l’azione dell’esecutivo!”)
senza doversi far carico di un difficile e motivato confronto con le
preoccupazioni di chi ricorda che la nostra Costituzione fu approvata
dopo diciotto mesi di lavoro da 556 parlamentari e giuristi di ogni
estrazione, mentre questa riforma, anche attraverso mozioni di fiducia e
tagli di emendamenti, ricorda piuttosto, almeno quanto al metodo,
quella bocciata nel 2006, scritta da quattro «saggi» durante alcuni
giorni estivi trascorsi a Lorenzago di Cadore. Occorre che dal “Fronte
del NO” sia respinta, invece, ogni deriva che tenda alla
politicizzazione del confronto per trasformarlo in scontro: “NO”,
dunque, anche al mistificante spot pubblicitario di un futuro paese
modernizzato ed efficiente grazie a questa riforma! Non esiste un
“Governo costituente”, specie se nato da una maggioranza partorita da
una legge dichiarata incostituzionale, anche perché — come ha scritto L.
Ferrajoli — “se c’è una questione che non ha niente a che fare con le
funzioni di Governo è precisamente la Costituzione”. Bisogna attivarsi,
allora, spiegando le ragioni del «No» ovunque sia possibile, nelle
università, nei centri sociali, nei circoli di quartieri, anche
attraverso strumenti informatici e moderne tecnologie, auspicando che il
mondo dell’informazione televisiva e della carta stampata assicuri
eguali possibilità di confronto alle due parti in causa. Bisogna
ricordare a tutti che ben 56 costituzionalisti, tra cui 11 ex presidenti
della Consulta e molti “saggi” in precedenza nominati per contribuire
alla riforma della Costituzione si sono schierati pubblicamente per il
“NO”, pur con rilievi ricchi di spunti propositivi. Bisogna far
conoscere le argomentate ragioni dei numerosi altri professori del
Comitato per il NO che hanno criticato il futuro pericolo di squilibrio
tra le componenti del Parlamento, quello di indebolimento delle
autonomie regionali, nonché il rischio di influenza del Presidente del
Consiglio nelle nomine degli organi di garanzia (dal Capo dello Stato ad
una parte dei membri della Consulta e del CSM). E tanto altro potrebbe
dirsi.
Perché mai, in questo quadro, sarebbe inaccettabile che i
magistrati si impegnino e si espongano pubblicamente nella campagna per
spingere i cittadini a votare «No»? A tanti di noi, piuttosto, tale
impegno appare doveroso anche se, come ha detto Paolo Borgna, esso va
attuato, “rifuggendo da atteggiamenti di schieramento e da logiche di
amico-nemico” e ricordando quanto avvenne nel gennaio del 2005 e del
2010, in occasione delle cerimonie di inaugurazione dell’anno
giudiziario, allorché tutti i magistrati italiani vi parteciparono
stringendo in mano, ben visibile, una copia della Costituzione, quel
pezzo di carta — disse Calamandrei — che non va lasciato cadere inerte
al suolo. P.S.: a chiunque avesse dei dubbi, consiglio di confrontare il
vecchio ed il nuovo art. 70 della Costituzione, un rigo il primo, una
pagina il secondo, riscritto questo — come ha detto G. Zagrebelsky — con
tecnica da “decreto milleproroghe”.