sabato 7 maggio 2016

Repubblica 7.5.16
Se l’infanzia diventa merce
Fortuna e i bambini preda degli adulti
di Corrado Augias

MARTEDÌ 3 maggio, a pagina 21, Repubblica ha pubblicato la fotografia di Fortuna Loffredo, bambina di cinque anni che vuole mostrarne molti di più, di sua madre che la mostra dolente, di un angolo d’abitazione dove troneggia un padre Pio dorato. L’immagine racchiude una storia lunga e difficile; può essere letta come un emblema della critica condizione infantile, ovunque e in ogni epoca. Quella foto mi ha dato un senso di malessere. La mia descrizione nel programma di Giovanni Floris “Di Martedì”, ha suscitato sul web polemiche.
IN QUALCHE caso si è trattato di ingiurie con la consueta approssimazione della Rete. Il tema dell’infanzia è importante, tocca nervi scoperti. Vale la pena di dare qualche precisazione a beneficio di chi, in buona fede, non avesse colto la gravità dell’argomento.
“Sorella mio unico amore” è un bel romanzo di Joyce Carol Oates (Mondadori). Siamo nel New Jersey, sonnolenta vita della provincia americana, famiglia Rampike. L’orgoglio e le speranze dei genitori sono tutti sulla bambina Edna Louise, sei anni, promettente pattinatrice, lunghi boccoli biondi, molto carina, un’infanzia buttata sulla via d’un precoce successo. Si potrebbe pensare a una storia molto americana, comprese alcune esagerazioni. Invece viene in mente il film di Visconti “Bellissima” (1951) protagonista Maddalena Cecconi (indimenticabile Anna Magnani) che punta ogni speranza di riscatto sulla figlioletta Maria. Vuole con forza disperata lanciarla nel mondo del cinema perché Maria la compensi di tutto ciò che lei non ha potuto avere. Riesce ad ottenere un provino. La scena dell’audizione è di insopportabile crudeltà; si trova su Internet.
L’infanzia non è certo l’età più difficile della vita ma per un breve periodo( un secolo circa) è riuscita ad essere ciò che dovrebbe, cioè l’età della spensieratezza, dell’irresponsabilità.
Quando il bambino Wolfgang Amadeus stupiva le corti europee con la sua maestria pianistica (l’estensione della mano non copriva nemmeno un’ottava) indossava una minuscola redingote, uno spadino alla vita, parrucchino incipriato, scarpette con fibbie d’argento. Non era un bambino ma una miniatura.
Tra l’altro sarà questa inconsapevolezza della condizione infantile che, dopo la rivoluzione industriale, renderà facile arruolare i bambini nelle fabbriche e nelle miniere. Si scandalizzavano solo alcune anime pie o particolarmente generose, i più vedevano i vantaggi dato il minor costo e considerato che l’infanzia come categoria non era ancora affiorata alla coscienza collettiva. Bisogna arrivare a Ottocento inoltrato perché questo concetto s’affacci grazie agli sviluppi della psicologia, più in generale ai progressi della civiltà.
Si diffondono allora giochi, letteratura, abbigliamento, istruzione a misura infantile. Progressi dietro i quali era però pronto un agguato.
Romanzi come quello della Oates, film come quello di Visconti fondano la loro parabola su uno dei più diffusi bisogni umani: assicurare ai discendenti (figli, nipoti) una condizione migliore della propria. Oggi, dopo la crisi, tutto è diventato più difficile ma per molti decenni, soprattutto a partire dagli anni del secondo dopoguerra, è stato un sogno che molti hanno potuto realizzare. Per alcune generazioni i figli hanno vissuto meglio dei genitori, l’ascensore sociale ha funzionato, è cresciuto il livello dell’istruzione, dell’alimentazione, il benessere. L’agguato è che di questo diffuso desiderio, della spinta che rappresentava, dei sacrifici che milioni di persone erano disposte ad affrontare perché si realizzasse, si è prontamente impadronita la pubblicità, motore dei nostri consumi, arbitra delle nostre scelte. Così l’infanzia si è nuovamente inabissata. Perché la pubblicità, e la moda che gli è compagna, vogliono che tutti consumino, di più e il più in fretta possibile, vogliono consumatrici in erba, non importa di quale età o condizione, le bambine meglio dei bambini perché il modello femminile ha bisogno di più complementi, vuole trucchi, abiti, scarpette, accessori; vuole atteggiamenti e sorrisi, compresi quelli ammiccanti da esibire durante una sfilata di modelle decenni che sembrano uscite da un catalogo di Barbie, la bambolina d’età non a caso indefinita. Privati della loro essenza infantile i bambini rischiano di essere percepiti da una mente malata, o solo abietta, come merce, cose da usare a piacimento.
Nel 1996 a Boulder, Colorado, venne trovato nella cantina della casa di famiglia, il cadavere di JonBenét Patricia Ramsey, sei anni. Era molto graziosa, avrebbe potuto continuare a lungo a giocare con indosso un grembiule sporco di terra e le ginocchia sbucciate. Invece i genitori l’avevano spinta a fare la modella, partecipava ai concorsi di bellezza dove del resto arrivava spesso prima. Molti l’avevano notata, compreso il suo assassino. Non c’è solo l’agguato della pubblicità o della moda ma anche quello degli orchi che aspettano le loro vittime nel buio delle loro menti ottenebrate e possono nascondersi ovunque: in un sobborgo o in una sacrestia.
La tragedia di JonBenét accadeva in quello strano paese che sono gli Stati Uniti dove la religiosità è molto intensa, quando c’è, ma può anche essere del tutto assente. Noi siamo un paese diverso – forse ancora più strano - nel quale il senso del sacro può esserci e non esserci nello stesso tempo, ridursi a sembianza insignificante, idolo, soprammobile, si tratti di una madonna o di un santo: coltiviamo la banalità del sacro. Questo complica la lettura dei fatti, aumenta lo stridore tra elementi che non dovrebbero essere così vicini.
La foto di Fortuna e di sua madre raccontava questa storia, racchiudeva lo strazio di ogni infanzia interrotta per fretta, ingenuo desiderio di rivalsa, speranza, sogno. Mentre l’orco, subito fuori della porta, aspettava il suo momento. Nessun adulto a Caivano ha mai denunciato l’orco, solo altri bambini. Nel 1968 Elsa Morante pubblicò una bella raccolta di poesie dal titolo “Il mondo salvato dai ragazzini”. Appunto.