Repubblica 6.5.16
Renzi
Una strada piena di rischi
di Marc Lazar
MATTEO
Renzi rischia molto nei mesi a venire, con le elezioni amministrative a
giugno e poi il referendum costituzionale a ottobre, per il quale ha
annunciato che in caso di sconfitta presenterà le dimissioni. È il
prezzo che paga, come tanti altri dirigenti politici in Italia o
altrove, per aver voluto giocare a fondo la carta della
personalizzazione, della presidenzializzazione e della mediatizzazione.
Del resto anche il clamore delle inchieste giudiziarie che si stanno
abbattendo sul suo Pd — un altro elemento di rischio — sembra l’altra
faccia di questa mediatizzazione. Al punto da attirare Oltralpe anche
l’attenzione di Le Monde: “Quegli scandali che avvelenano Matteo Renzi”
titola il quotidiano parigino.
Matteo Renzi,
infatti, ha cercato incessantemente di consolidare la sua posizione di
leader. Ha operato, in quest’ottica, due rotture importanti con la
storia del centrosinistra: con la cultura democristiana della mediazione
e con la concezione della sinistra comunista legata alla preminenza del
partito, dove il capo era prima di tutto l’incarnazione del collettivo.
Renzi intendeva adattarsi alle novità del presente, e in particolare a
tre di esse: l’emersione della democrazia dell’audience, iniziata in
Italia da Silvio Berlusconi ma riscontrabile ovunque, segnata dal
declino delle vecchie ideologie, delle culture politiche tradizionali e
dei grandi partiti, e dove il leader esercita un’influenza
considerevole; il ruolo fondamentale assunto dai media per fare
politica, dalla vecchia televisione ai social network; la diffidenza
crescente verso le istituzioni, la classe politica tradizionale, la
casta, e di conseguenza l’ascesa dei movimenti definiti populisti, come
il Movimento 5 Stelle, che pure rappresenta un caso specifico, nel
quadro europeo.
Matteo Renzi esercita dunque
fino in fondo il mestiere di leader. Affronta le organizzazioni di
categoria — compresa quella dei giudici — e le ignora perché le
considera freni corporativi alla sua ambizione riformatrice, bene
illustrata dalla riforma del lavoro, da quella elettorale e
istituzionale. Preferisce, di conseguenza, rivolgersi direttamente ai
suoi elettori potenziali. Cerca continuamente di polarizzare il campo
della politica, ma su altre tematiche rispetto a quelle su cui si
contrapponevano destra e sinistra, sottolineando l’antagonismo tra
riformatori e conservatori di ogni stampo. Trasforma il Pd in PdR, il
Partito di Renzi, per riprendere l’espressione di Ilvo Diamanti, un
partito al suo servizio, anche se pezzi della periferia
dell’organizzazione sfuggono al suo controllo e non tutti gli oppositori
sono — ancora? — ridotti al silenzio. Deciso a colmare la frattura fra
il popolo e l’establishment, Renzi non esita ad adottare atteggiamenti
che si potrebbero definire populisti, presentazione di se stesso come
outsider per vocazione, provocazioni varie. Ma lo fa con la speranza di
canalizzare la protesta e prosciugare il bacino elettorale dei partiti
di protesta a vantaggio suo e del suo partito. Moltiplica gli annunci di
cambiamento perché nulla sarebbe peggio del grigiore della normalità e
dell’immobilismo, che potrebbe farlo passare per un dirigente normale,
mentre ha bisogno di iscrivere la sua azione nel registro
dell’eccezionale. Parimenti, ha il dovere di essere in prima linea su
tutti i fronti, controllare tutto e centralizzare tutto. Infine, deve
mostrare e dimostrare che è uno che decide, rapidamente e con
determinazione.
In un primo momento, questa
politica ha dato i suoi frutti. Ha ottenuto un successo spettacolare e
storico alle elezioni europee del 2014 e ha beneficiato di sondaggi
lusinghieri. Ora le cose cambiano. La sua popolarità è in ribasso, anche
se può contare sulla mancanza di un vero rivale e continua a essere in
una posizione confortevole se si fa il raffronto con altri capi di Stato
e di governo dopo due anni di esercizio del potere. E soprattutto, i
rischi insiti nella posizione di leader nella democrazia di opinione
affiorano con chiarezza: la hybris, sempre in agguato, lo porta a
commettere passi falsi; le vittorie ottenute di misura per imporre
queste riforme rischiano di rivelarsi di corta durata per l’assenza
dell’indispensabile pedagogia della politica che i corpi intermedi,
emarginati, sconfitti o disprezzati, non possono più garantire;
moltiplicare i cantieri di azione pubblica rischia di rivelarsi
sfibrante e inefficace, soprattutto se ognuno di essi si concretizza
lentamente e con difficoltà. Manipolare il populismo è giocare con il
fuoco e peraltro, al momento, il Movimento 5 Stelle resta su livelli
alti nelle intenzioni di voto.
Insomma,
Matteo Renzi vive l’esperienza paradossale conosciuta da altri politici,
come Nicolas Sarkozy in Francia, Tony Blair in Gran Bretagna o Silvio
Berlusconi in Italia. Più il leader è forte e sovraesposto, più è
debole, perché è alla mercé del minimo insuccesso, per esempio
elettorale, che subito gli viene attribuito e lo mette direttamente in
discussione. Più va spedito, più rischia di ritrovarsi presto senza
fiato. Matteo Renzi, si dice, è un buon corridore. Forse riuscirà anche
in politica a ritrovare il fiato, ad allungare il passo, a rendere
duratura la sua azione, a indicare un progetto di lungo periodo.
Altrimenti, rischia grosso davvero.
(Traduzione di Fabio Galimberti)