venerdì 6 maggio 2016

Repubblica 6.5.16
La parabola di Mr Tiscali l’uomo che sognava di scalare i democratici
di Filippo Ceccarelli

POVERO Soru, però anche povero un corno. In ogni caso, c’è questa foto che dice tutto ritraendolo in aula nell’attimo metafisico dopo la sentenza, a braccia conserte, a capo chino.
Poco più tardi, uscendo abbastanza rintronato dal tribunale, dice che è un momento «grave» e poi: «Voglio stare un pochino da solo». Un pochino? È una vita, in realtà, che Soru è solo. Che si afferma da solo, vince da solo, sbaglia da solo, perde da solo, si rovina da solo, comunque fa tutto da solo, senza fidarsi mai di alcuno, chiuso accentratore, taciturno, meticoloso, uomo di genio, di ghiaccio e di disastri.
L’autosufficienza come veicolo di trionfo e di rovina. In un santino elettorale - magnifico, ma vano esempio di narcisismo a sfondo etno-identitario - fu lui stesso a definirsi: «Testardo, introverso, orgoglioso. In breve, sardo». Là dove la sequela di aggettivi, se pure non rendeva giustizia a tanti spiritosi e amabilissimi sardi, era un auto-tributo che lui solo, o solo lui, almeno allora poteva permettersi. In quello stesso anno 2009, il momento decisivo della pazzesca epopea di potere di Soru e prima ancora della sua incredibile avventura di successo economico.
Presidente uscente della Sardegna, tradito, bocciato e dimissionario sul piano urbanistico regionale, cercò nelle urne una rivincita che assomigliava a una vendetta. Come un reale pericolo, fu Berlusconi a intravedere il possibile orizzonte di Soru: «Se non lo battiamo in Sardegna, ce lo ritroviamo presto a Roma». Leader del Pd e poi del centrosinistra, «nuovo Prodi», miliardario democratico sbocciato da una storia personale, una specie di favola meravigliosa che nel nome di una località non proprio conosciutissima, Tiscali, teneva insieme miti nuragici e futuro, tecnologia e arcaismo, digitale rupestre e quattrini a tutto spiano.
Senza volerlo, forse nemmeno senza saperlo, l’ex giovane fenomeno di Sanluri, a 40 km da Cagliari, il figlio di commercianti divenuto tycoon della New Economy all’italiana, sembrava al tempo stesso uguale e contrario rispetto al Cavaliere e alle pacchianerie che già allora cominciavano a stufare. Soru era sobrio, pensoso, anti-divo, pelato consapevole, marito fedele morigerato in tutti i sensi, legato al paesello, senza cravatta (come un governante iraniano), senza barzellette, senza quadri sulle pareti di rigore bianche nelle sue dimore, a loro volta architettonicamente minimali, austere, lineari, razionali, magari tali da garantire ulteriori risorse introspettive.
Ma perse, e anche male perché non se l’aspettava. Come tutti i solitari diffidenti, si sentì di nuovo tradito, dai partiti, dagli elettori, dalla Sardegna su cui pure aveva coltivato preziose intuizioni. Ingannato e deluso da tutti, ritrovandosi per giunta tra le mani l’Unità, che aveva comprato per fare un piacere a Fassino, D’Alema, Veltroni e a quegli altri di Roma (i giornalisti, tutti, hanno di lui un pessimo ricordo).
E insomma. La politica e poi il potere, dimensioni necessariamente collettive, risultarono per Soru imprese molto più difficili che fare soldi.
Per quelli, fin da ragazzino, ampiamente aveva dimostrato di essere un prodigio. Supermercati e centri commerciali dapprima, poi sulla scia di Nichi Grauso, altro sardo di eccezionale acume e rabdomantico talento, ma molto meno sorvegliato di Soru, la scoperta di Internet e di una prospettiva. Quindi nel 1997 la fondazione con simbolico pellegrinaggio in una caverna e musicanti al seguito - di un’azienda che in due anni arrivò ad essere quotata in Borsa per la rimarchevole cifra di 30 miliardi di lire.
Un milione e più di abbonati, quasi duemila dipendenti. L’acquisto in America di World on line, la sfida a Telecom. Tutto e sempre da solo, contro tutti e contro tutto, con l’unico aiuto del solito caratteraccio o, se si vuole, da un ego, o meglio forse da un Super Ego capace di superare quasi tutti gli ostacoli.
Quasi tutti, però. Non però, ad esempio, lo scoppio della bolla speculativa; e magari nemmeno quell’inquietudine che lo portava a uscire dal suo campo, dalle sue attitudini, dal suo istinto di imprenditore.
Si sa come vanno queste cose; si conoscono le lusinghe e i lati oscuri delle fortune economiche. L’aereo privato da prestare agli amici potenti; le poltroncine dei talk-show; i peana dei giornalisti sulle manie, le pause e sulle parabole di un’oratoria tanto scarna quanto ritenuta efficace, ma fino a quando?
Se non suonasse troppo banale e anche un po’ moralistico, si potrebbe dire che Soru si era montato la testa. Ma poi le cose sono sempre più complicate delle povere diagnosi dei giornalisti. Resta per ora la condanna e questa foto di lui a testa bassa. Da solo, ancora una volta, fino in fondo.