Corriere 6.5.16
«Comunque vada sono sconfitto» Il declino dell’ex astro nascente pd
di Marco Imarisio
Nei
camerini dell’atelier che per un mese aveva fatto da improvvisato
comitato elettorale i dirigenti sardi del Pd brindavano con bicchieri di
plastica allo scampato pericolo. Cagliari, 17 febbraio 2014. Euforia e
vino bianco scorrevano in dosi abbondanti per festeggiare l’insperata
vittoria alle elezioni regionali del «signor nessuno» Francesco
Pigliaru, il timido professore universitario che aveva accettato a un
mese dalle urne di rilevare il «cilicio», così lo definì il diretto
interessato, lasciato in dote da Francesca Barracciu, la vincitrice
delle primarie azzoppata, corsi e ricorsi storici, da un avviso di
garanzia per le cosiddette spese pazze del suo gruppo consiliare, che si
era ritirata con le urne già in vista.
Renato
Soru aveva attraversato quel muro di gente esultante con una
espressione quasi triste, consapevole degli sguardi interrogativi dei
colleghi di un partito che a fasi alterne gli appartiene ma che da
sempre lo considera altro da sé, un mistero se non un estraneo. Era da
tempo che non appariva su una ribalta nazionale, anche se in realtà non
era mai uscito da quelle forche caudine che sono la politica sarda. La
sua aria mesta per una vittoria alla quale aveva contribuito da una
posizione defilata per scelta aveva fatto pensare gli osservatori
esterni al fatto che gli uomini orgogliosi, e Soru possiede orgoglio in
quantità industriale, faticano a riprendersi più degli altri da certe
legnate.
Anche per questo la condanna in
primo grado per evasione fiscale è una doppia onta, non solo politica,
ma soprattutto personale. «Non nego che questo sia un momento molto
difficile della mia vita» ha detto fuori dal tribunale. «La ritengo una
sentenza ingiusta. Mi sono sempre ritenuto un cittadino, un imprenditore
e un servitore dello Stato onesto e trasparente. Conosco il valore del
lavoro, lo rispetto, e penso di aver sempre pagato tutto, dando
indirizzi precisi sulla provenienza del denaro. Farò appello, ma
comunque vada in futuro, per me è una sconfitta».
Esiste
un prima e un dopo nella sua seconda vita di politico. A fare da
spartiacque tra un destino da predestinato, imprenditore di successo,
uomo moderno che ama la sua isola antica, e quello di un dirigente di
partito costretto a rientrare in ranghi popolati da consimili che per
via del suo curriculum lo guarderanno in eterno come un marziano, c’è
una frase. «In Sardegna ho fatto vincere il mio commercialista». Può
anche essere che si tratti di un apocrifo, che un Silvio Berlusconi al
massimo della sua popolarità non l’abbia mai pronunciata. Ma la sostanza
rimane. Nel novembre del 2008 il governatore Renato Soru, bocciato
dalla sua maggioranza che gli aveva votato contro a scrutinio palese, si
era dimesso. Era da tempo un re senza corona, privo dell’appoggio del
Pd regionale, che alle primarie per la segreteria gli aveva preferito
l’eterno nemico Antonello Cabras. Oggi sembra preistoria, ma l’allora
presidente del Consiglio Berlusconi aveva trasformato le nuove elezioni
sarde in una sua battaglia personale, scegliendosi un candidato senza
nome, il mite Ugo Cappellacci, figlio del suo commercialista,
oscurandone la faccia e il nome, che appariva minuscolo sotto il suo,
stampato a caratteri cubitali nei manifesti. In palio non c’era solo
l’isola ma soprattutto il destino del Partito democratico, del quale
Soru sembrava l’astro nascente. Invece, nel febbraio del 2009, perse, a
causa di un Pd spaccato come una mela. E il tonfo fu di dimensioni tali
da produrre anche un riverbero nazionale. Con lui cadde infatti anche
Walter Veltroni, che si dimise da segretario nazionale.
La
risalita non fu una passeggiata. Nel maggio del 2014 approdò a
Bruxelles forte di una buona affermazione personale, 183mila preferenza
che gli fecero superare le capolista della circoscrizione dell’italia
insulare Caterina Chinnici. E subito dopo si riprese il Pd sardo,
diventandone segretario, la carica dalla quale si è dimesso ieri.
«Accentratore», «decisionista». Su tutte, dall’interno del suo partito,
l’accusa più infamante, quella di essere un «cocco dei media», «il più
berlusconiano del Pd», un imprenditore dallo spirito plebiscitario che
si rivolgeva direttamente agli elettori saltando a più pari la famosa
intermediazione.
La nemesi arriva proprio
dalla televisione. All’origine della condanna di ieri c’è un servizio
giornalistico di Anno Zero sull’attività degli operatori italiani
all’estero. Ma a Cagliari tutti sanno che la sentenza ha solo accelerato
la fine della storia. L’ennesima lite con Cabras e la componente degli
ex socialisti del Pd, in Sardegna le vie della politica hanno ancora
tratti novecenteschi, aveva fatto di Soru un segretario regionale senza
più maggioranza nel suo partito. E i giorni di Tiscali, con Newsweek ,
Bbc e Financial Times che spedivano inviati nella sua Sanluri a
raccontare dell’uomo «che vuole governare Internet in Europa» non sono
mai sembrati così lontani.