Repubblica 5.5.16
La sana follia che aiuta a catturare la felicità
Da
Lucrezio a Leon Battista Alberti e Dostoevskij, i classici considerano
la malattia mentale anche come portatrice di bellezza e pienezza di vita
di Massimo Cacciari
Massimo
Cacciari sarà uno dei protagonisti della quindicesima edizione di “ La
permanenza del classico”, che si apre stasera all’università di Bologna
con Ivano Dionigi (“ Furor et amor”, il titolo del suo intervento).
Cacciari parlerà il 26 maggio sul tema “ Sana insania”
Compito
impervio tracciare confini; distinguendo congiungono e congiungendo
distinguono. Per quanto saldi, mai tali da impedire la trasgressione.
Una soglia, un “limen”; come tra luce e tenebra, tra caldo e freddo, tra
dolce e amaro, così tra malattia e salute. Che vuol dire malattia? Si
chiede il protagonista dell’”Idiota” di Dostoevskij, l’epilettico
principe Myskin. Non potrebbe rivelarsi anche in essa una pienezza di
vita, un inaudito senso di bellezza? Vi sono insanie che sembrano
mandate dagli dèi, e sono le più tremende: l’amore che delira in
passione e travolge Ippolito e Fedra, la follia che colpisce Aiace,
quella dionisiaca che impone al coro delle Baccanti il sacrificio di
Penteo. Ma è mania divina anche quella poetica e quella apollinea della
profetessa che siede a Delfi, protettrice di Socrate, tanto saggio,
quanto stra-ordinario fino all’assurdo, atopos.
È certo necessario
per vivere cercare di distinguerle, porre la differenza tra i loro
ambiti, e tuttavia nessuna distinzione può reggere se non tra ciò che
viene in uno pensato.
Mai questa dura lex si è imposta con più
prepotenza che nei linguaggi dell’Occidente. Essi sono la madre dei
folli voli — maledetti alcuni, benedetti altri, ma tutti insofferenti di
ogni limite imposto, di ogni ben radicata barriera, tutti oltrepassanti
e infuturanti. Qui il noto vale soltanto come spinta all’ignoto, alla
scoperta, all’inaudito. Se salute significa esser “contenti” in sé,
conservare una propria stabile “forma”, il nostro è allora il linguaggio
dell’insania, dell’insoddisfatta e insoddisfacibile cura. Impigrae
experientia mentis (Lucrezio V, 1452) il nostro cammino, cammino di una
mente che non sa stare. E questa immagine di un drammatico, perenne
rivolgimento, di continui mutamenti e metamorfosi lo proiettiamo sulla
stessa natura, che ci appare inquieta e in febbrile rivoluzione come il
nostro animo.
L’alma Venus lucreziana nulla ha di benevolmente
materno, accogliente, consolante: lo stesso mondo è in pericolo; la
terra è come ci mancasse sempre sotto i piedi, pronta a spalancarsi in
un abisso che inghiotta la totalità delle cose (Lucrezio, VI, 600 ss.).
Perciò forse è la nave ad apparirci come la nostra più consona dimora.
Tutti imbarcati, fin dalle origini, in omni tempestate, il cittadino
ateniese esaltato da Pericle come Dante argonauta, gli eroi di
Shakespeare come il “cavaliere vergine” don Chisciotte, errante sul suo
ronzino. Nave di eroi o nave di folli, Narrenschiff? O piuttosto eroe è
proprio quel folle che riconosce la follia comune e riesce con più
realismo e rigore a rappresentarla? Questo è certo il caso dei più
grandi di quell’Umanesimo che alcuni si ostinano ancora a considerare
nelle vesti di una sedentaria erudizione, di una retorica
filosoficamente inconsistente (per ammirarne magari, poi,le espressioni
artistiche, senza nulla afferrarne del pensiero e dei drammi da cui sono
nutrite). Leon Battista Alberti e Machiavelli dipingono l’uomo come
l’animale «irrequieto e impazientissimo di suo stato alcuno e
condizione», non servo del fato o fortuna, poiché agitato, infirmissimus
è lui stesso, vicissitudo è la sua stessa natura.
Se questo
esserci è insano, se è stultitia il suo agire, allora la follia abita in
lui in tutte le forme del suo apparire. Folli tutte le personae, ovvero
le maschere dietro le quali nascondendosi si rivela. E soprattutto
quelle della filosofia. Il grande libro dell’Alberti, il Momus, forse
l’opera letteraria
somma del Quattrocento, diecimila volte più amara, aspra, disincantata del celeberrimo
Elogio
della follia di Erasmo, è tutto percorso da una critica radicale della
stolta boria dei filosofi, che pretendono di distinguere nettamente la
propria ratio dalle passioni della moltitudine, quando ne condividono
invece l’idea di fondo: e cioè la follia di concepire l’universo a
nostra immagine, di considerarlo finalizzato a noi, alla nostra utilità,
al nostro piacere. Follia analoga a quella dei teologi che si
promuovono a difensori e avvocati di Dio e vorrebbero spiegarci le
ragioni del male, della sofferenza, dell’inferno del mondo.
Ma
anche chi vede e dipinge questi deliri è imbarcato. O costretto a
seguire il Carro del fieno dipinto da Bosch. In cima all’immenso covone
assalito dalla moltitudine insaziabile e incurabilis, e seguito da
ricchi e nobili, vescovi e re, l’Angelo e il Demone si contendono la
nostra anima fino alla fine del tempo.
È la stessa la linfa che
sale per i rami delle follie più bestiali(la “bestialissima” è, per
Leonardo, la guerra) e quella che, nell’agitarsi instancabile del
cogitare, crea opere che sembrano dover durare in eterno. Il potere che
ci è dato di esser dannosi a se stessi e agli altri, la follia di voler
dominare sulla natura come ci fosse stata data in possesso, non sono
astrattamente separabili dalla virtù di conoscere, scoprire, edificare.
Togli l’inquietudine e l’insofferenza per il proprio stato e toglierai
non solo superbia e violenza, ma anche quegli “artifici” innumerabili
prodotti da ingegno e studio. Guarire da queste dissonanze è possibile
solo cessando di esistere, o rassegnandosi al tramonto. Non è folle,
d’altronde, lo stesso Dio dell’Europa o Cristianità? La suprema follia
di un Dio che si incarna e muore tra le più atroci sofferenze! E non si è
detto pazzus di Lui il suo più perfetto discepolo, Francesco? Non è
follia il voler far “cantare insieme” la follia di questo Dio con gli
altri linguaggi d’Europa, senza confonderne i destini in tenebra o luce
tutte uguali? Eppure, proprio che a un tale folle compito oggi dovremmo
sentirci chiamati.