Repubblica 4.5.16
Rette record e posti vuoti la grande fuga dagli asili nido 4 bimbi su 5 restano a casa
Al
Centro-Nord iscrizioni a picco: effetto del calo delle nascite ma
soprattutto della crisi Al Sud poche strutture e liste d’attesa
lunghissime “Servono modelli flessibili per aiutare le famiglie”
di Maria Novella De Luca
SONO
ancora i più belli del mondo, come li definì Newsweek negli anni
Novanta. E non soltanto a Reggio Emilia. Ma in Toscana, in Umbria, in
Veneto, in Lombardia. Architetture all’avanguardia, eco-capolavori, mini
campus di giochi e scoperte dove crescere sembra un’avventura speciale.
Eppure gli asili nido italiani sono in crisi. Un’eccellenza che si va
sgretolando. Posti vuoti, rette altissime, Comuni in affanno, famiglie
con i redditi dimezzati, madri disoccupate, e per la prima volta negli
ambitissimi nidi del Centro-Nord le liste d’attesa non ci sono più. I
bambini cioè restano a casa. O affollano i concorrenziali e spesso più
economici asili privati. Iscrizioni in calo del 4%, come aveva già
segnalato l’Istat nel 2013: non era mai accaduto dal 1971, quando fu
approvata la legge nazionale sui nidi d’infanzia, che li trasformò da
luoghi assistenziali nel primo gradino della scala educativa. Ma la
discesa è continuata: nel 2015 a Roma le iscrizioni sono calate di 1.500
bambini, la “mitica” Reggio Emilia ha segnato una discesa del 4,3%, e
lo stesso è accaduto a Venezia, Mantova, Trieste, Firenze. Una
conversione a U, in controtendenza con l’Europa, e contro tutti gli
studi più recenti, che raccontano quanto frequentare un buon nido nei
primi mille giorni di vita sia garanzia, poi, di maggiori capacità e
relazioni nella crescita.
«Un controsenso — commenta Daniela Del
Boca, docente di Economia politica a Torino — negli ultimi vent’anni non
abbiamo fatto altro che chiedere più nidi e oggi abbiamo i posti vuoti.
E siamo ben lontani dall’obiettivo europeo del 33% dei bambini
iscritti: in Italia la media è del 17%, ma la quasi totalità è nel
Centro-Nord». Se a Trento il 23% dei piccoli sotto i tre anni usufruisce
di baby-servizi, in Calabria la percentuale è del 2,1%, la più bassa
d’Italia. E c’è voluta la mobilitazione di una ong come “Action Aid” per
riuscire a far riaprire, nel settembre scorso, a Reggio Calabria,
l’unico nido comunale presente in città, 190mila abitanti e 5mila
bambini in lista d’attesa. Una goccia nel mare. «Al Sud, purtroppo, i
nidi non sono mai nati, con una grave deprivazioneper i più piccoli,
mentre sono fioriti laddove (al Nord) l’occupazione delle donne è piena,
al 60%,contro il 20% del Meridione ».(C’è da chiedersi allora dove
siano stati deviati i tanti fondi arrivati al Sud in questi anni,
proprio per la costruzione di nuovi asili). Dietro la flessione delle
iscrizioni ci sono, per Del Boca, più fenomeni: «L’aumento delle rette,
determinato anche da una cattiva gestione dei fondi. L’impoverimento
delle famiglie. La mancanza di lavoro delle donne che quindi restano a
casa con i figli, in particolare le immigrate. E infine il calo della
natalità».
Il costo medio di una retta è di circa 311 euro al mese
per ogni bambino, secondo un recente dossier di “Cittadinanzattiva”, ma
con punte che possono arrivare a 600 euro nel caso di Lecco, il Comune
più caro d’Italia. «Costi impossibili, così i nidi chiuderanno tutti»,
sottolinea Laura Branca, presidente dell’associazione “Bologna-Nidi”, e
curatrice del corposo dossier “Mille nidi in mille giorni”, dallo slogan
lanciato nel settembre 2014 dal premier Renzi, ma i cui risultati,
venti mesi dopo, ancora non si vedono. Laura Branca è una delle mamme
che parteciparono alla cosiddetta “rivolta dei passeggini” contro
l’esternalizzazione dei nidi decisa dal Comune di Bologna. «Quello che
emerge dal nostro monitoraggio è un bollettino di guerra di chiusure e
strutture cedute in appalto, e questo vuol dire, spesso, una caduta
della qualità », spiega Branca. «Le cooperative applicano contratti al
ribasso, gli educatori vivono una condizione di precariato permanente,
aumenta il numero di bambini per operatore, c’è un turn over altissimo e
assai negativo per i piccoli. Per tagliare i costi sono scomparse le
cucine, i bambini mangiano pasti precotti, ma è solo un esempio. Certo,
ci sono ancora struttu- re d’eccellenza, ma le crepe sono ormai
dappertutto».
Aldo Fortunati, direttore dell’area educativa
dell’Istituto degli Innocenti di Firenze, approfondisce l’analisi. «Non
c’è una disaffezione culturale verso il nido, le famiglie semplicemente
non se lo possono permettere. Anche chi ottiene il posto, o rinuncia in
partenza (nel 15% dei casi) oppure, dopo pochi mesi, trasferisce il
bimbo in una struttura privata più economica. O, ancora, semplicemente
smette di pagare la retta: sono moltissimi i casi di morosità. E a ciò
si aggiunge una giungla dei criteri di accesso, che si trasforma in una
guerra tra poveri ». In mancanza di riferimenti nazionali, ogni Comune
decide per sé. Chi privilegia le madri che lavorano, chi quelle che non
lavorano.
Dice Fortunati: «La nuova legge sul percorso 0-6, che
collegherà i nidi alle scuole dell’infanzia, potrebbe rilanciare tutto
il sistema. Perché i numeri calano, ma la cultura del nido si è invece
radicata, basta guardare le regioni del Centro-Nord. È come alla fine
degli anni Sessanta: non era ovvio mandare i figli all’asilo, poi ci fu
la riforma statale della scuola materna, e oggi il 99% dei bambini la
frequenta».
Un progetto antico, quello 0-6, rilanciato dalla
senatrice pd Francesca Puglisi nella legge delega della Buona Scuola.
Far uscire i nidi dalla dimensione di alta nursery e considerarli sempre
più scuola, seppure facoltativa. «I Comuni vivono una perenne
incertezza sui fondi, che si riverbera sulle aperture e chiusure di
nidi. Non condanno l’esternalizzazione, in molti casi le cooperative
fanno un lavoro eccellente. Ma riorganizzare le risorse, con standard
nazionali decisi dal Miur, come prevede la legge 0-6 — commenta Susanna
Mantovani, docente di Psicologia alla Bicocca — può essere una buona
strada. Immaginando nuove flessibilità di orari e servizi, e più
formazione degli educatori. È una sfida, ma ai nidi non bisogna
rinunciare: per i bambini sono esperienze straordinarie e formative».