Repubblica 4.5.16
I muri nel cuore d’Europa e i fantasmi del Novecento
Quelli che innalzano steccati pensano di preservare i loro piccoli privilegi
di Nadia Urbinati
L’EUROPA
è nata sul diritto di movimento. È stata voluta da ex-nemici mortali
che si impegnarono a garantire la libertà di movimento ai loro
concittadini, per rendere i confini porosi e infine, con il Trattato di
Schengen, aperti agli europei e, seppure con minore certezza, agli
immigrati col permesso di soggiorno dei rispettivi Paesi. Il Trattato di
Roma, di cui si celebrerà il sessantesimo anniversario nel 2017, è il
documento con il quale si riconobbe esplicitamente che i confini
nazionali sono all’origine delle guerre.
I Paesi che avevano fatto
dell’Europa un mattatoio ricostruirono la pace partendo proprio dal
diritto più prossimo alla condizione umana: quello di cui secondo la
bella intuizione kantiana ciascuno ha bisogno per poter essere libero di
uscire dal proprio stato portando con sé le proprie radici.
Il
diritto di visita era per il grande illuminista tedesco una protezione
giuridica coerente alla nostra condizione che ci porta per le più
svariate ragioni, per sopravvivere o per crescere, a muoverci per il
mondo, a decidere di andare altrove. I confini sono artifici che devono
poter essere relativizzati e la loro chiusura giustificata — ecco il
senso dell’argomento del diritto contro la forza degli stati su cui i
trattati europei e gli accordi internazionali per i rifugiati e i
richiedenti asilo si fondano.
Le ideologie nazionaliste sono
andate di pari passo con la cultura del diritto di movimento, anch’esse
nate sull’onda delle Rivoluzioni del Settecento e con il proposito di
contenere e rovesciare, se necessario, la logica di quel diritto. La
religione della nazione ha cercato di far passare come naturale la
nazione e tutto quel che ad essa consegue: i caratteri etnici, la
religione, la lingua, infine i confini che tutto questo sigillano,
celebrati anche come “sacri”.
Dalla radicalizzazione di queste
premesse nazionaliste sono nati i mostri del Ventesimo secolo, come
Altiero Spinelli, Ernesto Rossi e Ursula Hirschmann avevano scritto nel
Manifesto di Ventotene: il militarismo, il colonialismo, le guerre
europee, le politiche di sterminio nel nome della purezza della razza.
Conosciamo questa storia. Ma non la ricordiamo più così bene, a quanto
pare, vista la rinascita prepotente dei muri e del filo spinato tra
l’Austria e noi, tra l’Ungheria e i Balcani e in altri luoghi ancora.
Diceva Benedetto Croce che la storia non è maestra di vita.
Ogni
generazione rivendica il diritto di fare gli stessi errori degli
antenati, con la giustificazione del contesto storico che cambia, per
cui non ci sono mai gli stessi errori. È proprio contro il relativismo
del contesto che la pratica dei diritti ha cercato di fare breccia — a
che servirebbe firmare trattati se non si presume che le condizioni
storiche anche se diverse possano comunque essere governate da noi,
dalla nostra “buona volontà”? I Paesi europei, quelli che hanno
sottoscritto o aderito al Patto di Roma e ai trattati che ne sono
seguiti, sembrano aver dimenticato sia la storia recente che la logica
del diritto. E mettono fili spinati lungo le linee invisibili che
separano gli uni dagli altri proprio mentre credono di tener fuori in
non europei.
Non è dato sapere se i cittadini di questi Paesi
siano informati sulle conseguenze che quel filo spinato avrà sulla loro
libertà di movimento. Avranno gli austriaci o gli ungheresi
consapevolezza che il filo spinato li chiude dentro proprio mentre tiene
fuori i rifugiati? L’opinione pubblica dovrebbe, se non altro, chiarire
che il diritto di movimento ha due direzioni, non una: è entrare ed
uscire. E l’uscire impone ad un altro stato di accettare chi esce. I
muri, fisici e amministrativi, sono purtroppo nascosti sotto una
montagna di propaganda nazionalista che fa vedere solo un lato della
storia. Se il muro di Berlino doveva bloccare il diritto di uscita ai
sudditi della Germania comunista, questi nuovi muri protezionistici
dovrebbero ostruire l´entrata ai migranti. I muri anti-immigrazione che
nascono nel cuore dell’Europa sono un modo molto concreto di dire che
coloro che li innalzano pensano che potranno preservare i loro piccoli
privilegi se e fino a quando solo loro ne godranno. Mettono in evidenza
una delle più stridenti contraddizioni che affliggono le società
globali: quella tra una cultura raffinata che condivide valori
universali e cosmopoliti e che resta comunque minoritaria, e una diffusa
cultura popolare che mentre si appaga del consumismo globale è
atterrita dalla globalizzazione, teme fortemente l´incertezza economica e
può sviluppare, con l’aiuto di demagoghi astuti, un attaccamento
parossistico ad un benessere che appare sempre più risicato, fragile e
temporaneo. Le nuove destre populiste europee tengono insieme due ordini
di discorso: gli interessi economici della loro classe media e
lavoratrice (che il decurtamento delle politiche sociali e l’austerità
imposta dal patto europeo di stabilità hanno reso più esposti alla
crisi) e il linguaggio della comunità nazionale (che le coordinate
tradizionali della politica, certo la sovranità, non sono più in grado
di rappresentare soddisfacentemente).
Il nuovo collante che
giustifica la costruzione dei muri di filo spinato — questo è il segno
della destra populista e nazionalista — è nuovo e recente: il
cospirazionismo, la cultura del complotto internazionale alimentato sia
dagli attentati terroristici e dalla propaganda dell’Is che dal dominio
della finanza globale sulle scelte nazionali. Questi ingredienti di
vecchio e nuovo conio sconvolgono alla radice le ragioni dell’Europa e i
propositi del Trattato di Roma, la cultura della libertà di movimento.