mercoledì 4 maggio 2016

Repubblica 4.5.16
Il nodo di Aleppo, la battaglia chiave della guerra siriana
di Bernardo Valli

Dall’irrisolta battaglia d’Aleppo dipende la possibilità di aprire un negoziato, a Ginevra, tra i protagonisti (non tutti) della guerra civile in Siria.
Per chi si spara ancora addosso non è accettabile sedersi allo stesso tavolo. La diplomazia è un proseguimento della guerra con altri mezzi o viceversa. Ma le due attività sono raramente simultanee. Perlomeno allo scoperto. Non sono comunque praticabili, al momento, da chi si batte da anni nella valle del Tigri e dell’Eufrate. La conclusione della battaglia d’Aleppo non aprirà le porte alla pace, che è ancora lontana e appare possibile soltanto attraverso la laboriosa nascita di uno Stato federale in cui possano convivere le forze oggi a confronto. La fine o la sospensione dell’assedio nella città, che fu un feudo del Saladino, aprirebbe però uno spiraglio. Per questo l’annuncio di una tregua è atteso con ansia. Anche se non dissolverà, né attenuerà il dubbio sulla possibilità di una rapida soluzione della crisi mediorientale.
Dove sono in gioco vecchi confini, con massacri sul terreno e con bluff da poker bugiardo nelle piccole e grandi cancellerie. Il russo Serghei Lavrov e l’americano John Kerry appaiono spesso impegnati in annunci, in rilanci come al tavolo verde, che nessuno ascolta o in cui nessuno più crede. A che punto il loro disaccordo diventa un’intesa? E quanti segreti sono annidati in questa intesa? Da Mosca, dove l’italo- svedese Staffan de Mistura, l’inviato dell’Onu dotato di un robusto ottimismo professionale, è andato a sollecitarlo, il ministro degli Esteri russo annuncia che un cessate il fuoco potrebbe essere imminente («forse una questione di ore»). Ma l’aiuto russo all’aviazione di Bashar al Assad, ed anche alla sua fanteria con milizie mercenarie affiancate a quelle iraniane, è nelle stesse ore indispensabile all’offensiva che tende a sbaragliare le formazioni ribelli da anni impegnate nell’assedio di Aleppo. A Vladimir Putin farebbe comodo che l’alleato raìs di Damasco si sedesse al tavolo dei negoziati con la città conquistata come trofeo. Ma i massacri negli ospedali, anche pediatrici, hanno commosso l’opinione pubblica internazionale ed è opportuna una pausa.
Interrogato, a sua volta, sulla sua fiducia nel comportamento russo sul terreno, a Aleppo, il segretario di Stato americano non ha risposto. Un atteggiamento da Ponzio Pilato. L’ importante è che si arrivi a una tregua e quindi a dei negoziati, con russi e americani, fianco a fianco, alla presidenza. Gli Stati Uniti fanno l’indispensabile nel Medio Oriente balcanizzato. Non di più. Quel che basta per assolvere il ruolo di super-potenza e non impantanarsi nella regione come le precedenti amministrazioni. Barack Obama, agli sgoccioli del secondo mandato, deve destreggiarsi tra i due grandi paesi rivali della regione: l’Arabia Saudita nemica di Assad, e l’Iran alleato e protettore di Assad, dunque a confronto in Siria per procura. Secondo le situazioni in Medio Oriente la Russia, per l’America, è concorrente o complice. Kerry ha giudicato positivo avere deciso con Lavrov di creare un sistema di monitoraggio per controllare il cessate il fuoco e individuare chi non lo rispetta. Per ora non esiste nulla del genere o non è tanto esteso ed efficace per poter denunciare chi l’ha violato negli ultimi due mesi, in particolare a Aleppo. Putin e Assad l’hanno fatta franca.
Dalla sorte della città contesa dipende anche il numero dei profughi che traboccano dal paese in preda alla violenza. Un vero cessate il fuoco ne frenerebbe il flusso verso la Turchia, con il miraggio delle coste europee. Una battaglia decisiva per un conflitto si conclude tuttavia con vincitori e sconfitti: e ad Aleppo per ora ci sono soltanto vittime. Per questo la tregua di fine febbraio, annunciata da russi e americani, ha scarsamente funzionato nell’insieme del paese ed è saltata del tutto il 22 aprile a Aleppo, dove sono ripresi i bombardamenti degli elicotteri e dei Sukoi forniti dai russi a Bashar el Assad. La cui sopravvivenza politica può dipendere dalla porzione di territorio che le sue forze armate controllano. Aleppo è una città chiave, non solo perché è la seconda del paese, ma perché nell’assedio sono impegnati quasi tutti i gruppi ribelli. Sia quelli considerati terroristi, come Daesch ( lo “Stato islamico”) e il Fronte al Nusra ( emanazione di Al Qaeda), e quindi esclusi dalle trattative; sia quelli aiutati dagli americani, come l’Esercito siriano libero; e quelli sostenuti, spesso separatamente, dall’Arabia Saudita, dai paesi del Golfo, dalla Giordania e dalla Turchia.
Affrontare un negoziato senza avere il controllo di Aleppo sarebbe un grosso handicap per Bashar al Assad. Nella città assediata deve prima neutralizzare i numerosi avversari. E per ora non c’è riuscito.
Sostenuto dai russi e dagli iraniani, il raìs di Damasco ha guadagnato terreno, ma non abbastanza per essere invulnerabile. Il controllo di Aleppo gli darebbe prestigio. Lo farebbe apparire una forza indispensabile per contenere e distruggere Daesch e al Nusra. Quindi apprezzato. Ma i regimi sunniti lo condannano come espressione del fronte sciita, alla cui testa c’è l’Iran. E non sono disposti a riconoscergli eventuali meriti. Gli europei a loro volta lo ripudiano con variabile intransigenza. Francia e Gran Bretagna hanno appena chiesto una riunione del Consiglio di Sicurezza, affinché condanni quel che accade a Aleppo. Definita dall’ambasciatore francese «centro del martirio della resistenza » al rais di Damasco.
Meno categorici, gli americani considerano Bashar al Assad un leader destinato a sparire col tempo sulla strada della pace. Un raìs poco rispettabile, non frequentabile, ma utile in caso di emergenza.