Repubblica 4.5.16
Povera umanità
Peter Brook: “L’indifferenza ci seppellirà”
A
trentuno anni dal suo memorabile “Mahabharata” il grande regista
britannico a 91 anni porta in scena (da venerdì in Italia)
“Battlefield”, poema epico sul potere
di Anna Bandettini
Tutto ciò che s’impara va messo in discussione se si vuole andare avanti
Sanno che se si combatte anche la vittoria è una sconfitta?
“Battlefield” va in scena venerdì al Teatro dell’Aquila di Fermo
ROMA
SONO passati 31 anni da quel rivoluzionario spettacolo che fu il
“Mahabharata” di Peter Brook: nove ore consecutive di teatro,
sconvolgenti per la semplicità, l’eleganza, l’ironia con cui il regista
anglo-francese rileggeva il suggestivo poema epico indiano. Brook oggi
ha 91 anni, è un omino cauto e gentile, dal sorriso dolce e la voce
chiara, ferma: dovrebbe essere appagato, sereno, i suoi capolavori sono
conservati nella storia del teatro e egli stesso è universalmente
riconosciuto come un grande maestro della scena.
Invece,
insaziabile, è tornato a interrogare il “Mahabharata” per un nuovo
spettacolo che sta girando il mondo, battagliero non solo nel titolo,
Battlefield, atteso dal 6 al Teatro dell’Aquila di Fermo, dall’11 al
Teatro Argentina di Roma, il 19 a Solomeo, dal 24 alla Pergola di
Firenze, dal 29 allo Storchi di Modena.
Con lo stesso scarno
linguaggio - niente scena, elementi e colori naturali - stesso
adattamento di Jean-Claude Carrière del capolavoro dell’85, rivisto con
Marie-Hélène Estienne, e solo 4 attori, lo spettacolo racconta la guerra
fratricida tra i cinque fratelli Pandava e i cugini Kaurava.
Yudishtira, il re dei Pandava ne esce vincitore, ma guardando intorno la
morte e la distruzione provocata, ammette la sua sconfitta.
Mr. Brook che significa?
«Non
lo deve chiedere me, ma al pianeta. Lo stato della Terra peggiora
giorno dopo giorno, confermando ciò che è già scritto nel “Mahabharata”:
l’umanità è divisa in 4 epoche, le 4 yuga, ci dice quel libro. La prima
è la rapida evoluzione dell’umanità fino al suo punto più alto, le
altre tre sono la discesa verso la distruzione totale. Noi siamo
tragicamente alla quarta era. Mi fa paura pensare che quando facemmo il
primo “Mahabharata”, c’era un grande ottimismo nel mondo e speranza per
il futuro e solo trent’anni dopo siamo di fronte al nostro sfacelo. Se
sono tornato al poema indiano è perché lì ci sono le risposte. Come
Shakespeare nei suoi 36 testi, copre ogni aspetto della vita umana,
assimilando pensieri cosmici e metafisici alle storie semplici della
vita quotidiana. Nell’Amleto e in questa grande epopea indiana hai il
pensiero più profondo e metafisico accanto al più triviale dei
comportamenti umani. È una guida, per restare solidi, realistici nel
combattere la grande marea che rischia di seppellirci».
A cosa pensa quando parla di sfacelo?
«Alle
guerre, al male, all’indifferenza con cui distruggiamo il nostro
pianeta, alla Siria, ai migranti, ai risultati di tutti gli errori umani
nel corso dei secoli. Prenda le ondate migratorie cui assistiamo in
Europa: la costruzione di muri è ancora una volta la soluzione più
semplice, quella che i politici alla Trump sbandierano perché fa credere
alla gente che sei forte, potente, che risolvi il problema. E temo che
la gente lo seguirà perché la dinamica è la stessa che ha portato alle
feroci dittature del Novecento: la gente, lei, io siamo pigri, avere uno
che risolve tutto, anche per noi, ci fa tragicamente piacere».
Lei ha detto che lo spettacolo devono vederlo Obama, Putin, Hollande. Che voleva dire loro?
«Non
voglio certo dare consigli ai politici, voglio solo raccontare la
storia di Battlefield per indurli a pensare a loro stessi, perché
possano vedere le grandi domande e capire cosa succede dopo la
battaglia. Se tu sei un leader e fai o sostieni una guerra devi sapere
che farai milioni di morti, anche se vinci. Sono certo che i leader del
mondo se lo chiedono, ma non profondamente come ce lo pone il
“Mahabharata”. Per Jean-Claude Carrière, Marie-Hélène e me il punto di
partenza è stata una frase di quel testo: in guerra una vittoria è una
sconfitta. Se si vede la storia da questo punto di vista, potrebbe
cambiare il futuro».
Lo spettacolo è molto austero, forse anche più di quello dell’85.
«Da
giovane ho usato in palcoscenico tutte le tecniche del cinema, della
musica, della danza, poi gradualmente ho iniziato a capire che c’è
qualcosa di essenziale. E la parola essenziale significa che c’è
qualcosa di più profondo e più forte di ogni effetto. E così in ogni
produzione ho imparato che di tutto quello messo in campo durante le
prove molte cose non sono necessarie, che un’idea è bella ma se è tolta è
meglio... L’importante è restare a stretto contatto con gli spettatori
su qualcosa che credo sia essenziale per tutti».
Lei è considerato un maestro: ci si sente?
«Ma
no, sono uno studente, come lei, come tutti. Posso portare la mia
esperienza in più, ma tutto ciò che s’impara va messo in discussione se
vuoi andare avanti. Una delle tragedie dell’umanità è quando sento dire
“questa è la verità”. Sono certo, sicuro che neanche il nostro
meraviglioso Papa si sognerebbe di pensare che egli può insegnare. No,
cerca di guidare, ispirare, non di dettare legge».
Lavora ancora molto? Come passa ora le sue giornate?
«Ogni
giorno è diverso, ma queste sono cose personali, intime. La mia
convinzione è che ognuno deve vivere cercando di essere utile agli altri
e per farlo c’è bisogno di molte cose diverse, anche studiare. Posso
solo dirle che alla mia età devo risparmiare un po‘ di tempo. E visto il
peso di quello che ci circonda cerco di vivere la mia giornata con più
umorismo possibile. Perché credo che il più grande dono che ci è stato
dato è la nostra capacità di ridere».
È un segno di ottimismo?
«No,
di realismo. Tenere gli occhi ben aperti, rende forti. Ciò che conta
non è l’ottimismo, è la speranza, che non è la stessa cosa. La speranza
non può esistere senza coraggio. Per me, per esempio, fare uno
spettacolo è come dare cibo a qualcuno. Se lo assimila ne ha bisogno
sempre di più, e sempre più rinnovato, rinvigorito. E ancora e ancora e
ancora. Ecco la speranza ».