Repubblica 4.5.16
Tutti gli animali che incontriamo nei nostri sogni
Escono i saggi che James Hillman dedicò al rapporto interrotto tra l’uomo, la sua psiche e la natura
di Silvia Ronchey
«Chi
siete voi, animali, psychai che ci visitate in sogno? e perché venite a
noi, proprio a noi, che abbiamo trascorso gli ultimi due secoli a
sterminarvi regolarmente, a un ritmo sempre più rapido, senza pietà,
specie per specie, in ogni parte del mondo?». Benefattori segreti,
portatori di un fuoco che non si vede e di una parola che non si sente,
gli animali che balzati da lontananze primordiali nel buio del nostro
letto condividono con noi la profonda intimità onirica ci legano sia al
microcosmo psichico, alla sua cognizione primordiale che ci definisce in
quanto “animati”, sia al macrocosmo in cui ciascuna nostra anima è
inserita e partecipa: al mondo sfigurato dallo
sterminio della
natura, che ha accentuato la nostra separazione dalle loro vite, che ci
mostra quotidianamente le loro sofferenze. Non li chiamiamo, ma ne siamo
chiamati. Perché senza questa residua familiarità con le loro immagini,
con i loro comportamenti nelle nostre anime, non possiamo capire noi
stessi come esseri umani.
Alla fine del secolo scorso, James
Hillman percepiva con estrema chiarezza gli effetti della distruzione
ecologica sulla psiche collettiva. La grande malattia umana del XX
secolo, la depressione, nella diagnosi di Hillman dipendeva dalla
percezione profonda della distruzione portata negli ultimi secoli al
mondo naturale. «Se c’è un’Anima del Mondo e noi ne facciamo parte,
allora ciò che accade nell’anima esterna accade anche a noi.
L’estinzione degli animali, come quella delle piante, è una sofferenza
insita nel mondo. Noi siamo parte dell’anima mundi e intimamente
soffriamo della sofferenza che vi si sta producendo». In un saggio
apparso per la prima volta nel 1982, poi più volte rielaborato e ora
ripubblicato da Adelphi ( Il regno animale nel sogno, in Presenze
animali), Hillman indica una terapia: salvare gli animali nella nostra
ecologia psichica, se non in quella fisica del pianeta in sistematica
via di distruzione; fare posto nella nostra intelligenza alle sembianze
zoomorfe di un non-umano onnipresente come sovra-umano nel sentimento
religioso delle civiltà antiche; concedere il rispetto dei nostri
pensieri più profondi a questi semi eterni, a queste divinità uccise che
hanno peraltro già solcato la via della nostra anima attraverso i
sogni.
Hillman aveva raccolto sogni su animali per quarant’anni.
Ne possedeva un enorme repertorio. Conosceva bene la potenza di quei
sogni e ne ricavava elementi forti per la sua revisione critica della
psicologia del profondo. La sua comprensione delle immagini oniriche
degli animali era strettamente legata al concetto, centrale nel suo
pensiero, di anima mundi, che riprendeva, come il lavoro sul mito, dagli
antichi greci e dai loro esegeti bizantini e fiorentini del
Rinascimento. Era radicalmente diversa da quella della tradizione
psicoanalitica, che li relegava a «rappresentazioni delle nostre brame,
delle nostre istintualità», a meri travestimenti allegorici dei
cosiddetti istinti umani, non dissimili da quelli enumerati nei bestiari
medievali o nei topoi morali di padri della chiesa come Gregorio di
Nissa. Occorreva invece disfarsi non solo dell’idea freudiana
dell’animale del sogno come funzione interiore dell’umano (gli impulsi
passionali simboleggiati da animali feroci; il gatto, il topo, il
serpente come equivalenti fallici; il rospo come grembo materno e così
via), ma anche dalle varianti di quella stessa interiorizzazione
psicologica offerte dal pensiero junghiano contemporaneo, per cui
l’animale del sogno, traccia filogenetica, antenato totemico, è
rappresentante di un livello “ctonio”, “primitivo” della psiche, se non
tout court di parti e funzioni di un “corpo” del quale l’io moderno,
nella sua condizione troppo razionalizzata, potrebbe rischiare la
perdita.
Per Hillman la degradazione degli animali a funzioni
interiori dell’umano, il loro assembramento in un “serraglio
dell’anima”, dissipava colpevolmente l’intuizione di Jung, per cui
occorreva invece immedesimarsi nell’animale, entrargli dentro, per
entrare più a fondo in noi stessi. «Comprendi che hai in te stesso
greggi di buoi, greggi di pecore e greggi di capre. Comprendi che in te
ci sono anche uccelli del cielo. Comprendi che tu sei un altro mondo in
piccolo, e che in te ci sono il sole, la luna e anche le stelle»,
scriveva Origene nel III secolo. Massimo sistema simbolico della
coscienza umana dai tempi di Altamira, gli animali raffigurati dagli
uomini preistorici sulle pareti di quelle grotte erano stati in realtà
dipinti, argomenta Hillman, «traendoli dalla visione interiore, nel buio
claustrofobico». Gli uomini delle caverne potevano raffigurarli con
tanta verosimiglianza perché facevano parte di loro. Il microcosmo
precede il macrocosmo. L’origine della specie, l’animale, è dentro
l’anima. Hillman si considerava un neoplatonico e quella di Hillman è,
naturalmente, una visione platonica. Non solo nella concezione di anima
mundi che sta alla base della sua psicologia archetipica, ma anche e
soprattutto nella teoria dell’immagine che ovunque la pervade. «Il corpo
è sempre portato dall’anima in un modo particolare, e questo modo di
portare deriva dalle immagini dell’anima ». Per Hillman non esiste il
corpo in quanto tale. Quel particolare tipo di esistenza che è
l’esistenza corporea viene veicolata in noi dalle immagini animali, che
non presentano il “nostro” corpo, ma il “loro”: come il topo, il piccolo
mercurius,
che sulla minuscola schiena grigia porta la repentinità dell’inventio,
che pratica fori e apre passaggi, continuamente cacciato dal gatto che
controlla la casa per il suo egocentrico comfort. Guardarsi
dall’intrappolare il topo del sogno nelle teorie della repressione
sessuale, salvare il fenomeno (o noùmeno?) animale entrando nella
fantasia teriomorfica: questa è l’”arca”.
Come in tutto il
pensiero di Hillman, il procedimento è quello della deletteralizzazione.
L’approdo è acquisire “l’occhio animale” e salire a bordo dell’arca
seguendo l’immagine in quanto tale: la via estetica, in questo caso
quella che Hillman, con Scholem e Corbin, chiama la visione zaffirica,
la materia incorruttibile del
caelum attraverso cui il mondo
fisico percepisce attraverso una luce metafisica. Il regno animale è
prima di tutto un’ostensione estetica perché l’occhio animale rivela la
bellezza del fenomenico e il suo eterno ritorno e ci permette di vedere
gli avvenimenti come rivelazioni, come “presentazione di immagini”.
Perché,
dunque, gli animali vengono a noi in sogno? Sono teofanie che
richiamano l’anima onirica al loro regno. L’anima è in esilio dalla sua
dimensione platonica. Il recupero dell’arca, espresso oggi come
nostalgia ecologica, è preliminare alla preservazione dell’anima dalla
propria estinzione. «L’animale», come scrive Hillman, «è la risposta più
risoluta al nichilismo». Il recupero delle forme animali nei nostri
sogni ripristina «la fede animale nella ripetizione delle realtà
durature» e ricapitola ogni mattina, al risveglio, il giardino
dell’Eden: la nostra cieca, pia, regolata fiducia nella realtà
dell’essere.
IL LIBRO Presenze animali di James Hillman (Adelphi traduzione di A. Serra e D. Verzoni pagg. 232 euro 13)