Corriere 4.5.16
L’attentato di via Rasella e le Fosse Ardeatine
risponde Sergio Romano
Per
l’anniversario del 25 aprile il ministro della Difesa, Roberta Pinotti,
ha presenziato a una cerimonia alla Fosse Ardeatine in rappresentanza
del governo. Ma anche il M5S ha reso omaggio a quel luogo, scelto come
meta per una biciclettata a sostegno di Virginia Raggi. Come mai le
Fosse Ardeatine sono ancora al centro delle commemorazioni?
Sergio Galli Bergamo
Caro Galli,
Le
Fosse Ardeatine sono diventate nella vita pubblica italiana il
necessario contraltare del monumento al Milite ignoto, il secondo
pilastro della ideologia italiana. L’Italia ufficiale rende omaggio al
Vittoriano quando vuole celebrare il Risorgimento, l’unità nazionale, la
vittoria del 1918. Ma deve visitare le Fosse Ardeatine quando vuole
ricordare che la Resistenza è un secondo Risorgimento, il simbolo
doloroso del riscatto morale della nazione. È molto probabile che i
devoti del Vittoriano abbiano opinioni alquanto diverse da quelli delle
Fosse Ardeatine. Ed è molto probabile che queste divergenze, in molti
casi, riflettano giudizi diversi sull’attentato di via Rasella: atto
eroico per una parte del Paese, inutile provocazione per altri. Ma i
rappresentanti delle istituzioni sanno che entrambi i simboli, se il
Paese vuole restare unito, sono diventati ormai indispensabili e che
nessuno dei due può essere trascurato a vantaggio dell’altro. Giova
all’immagine delle Fosse Ardeatine, inoltre, il fatto che le vittime
fossero straordinariamente rappresentative della collettività italiana:
monarchici e repubblicani, comunisti e liberali, civili e militari,
borghesi e popolani, ebrei e cristiani.
La storiografia, nel
frattempo, continua a scavare nelle vicende di quei giorni. Una studiosa
della Università di Pavia, Donatella Bolech Cecchi, ha ora pubblicato
per le edizioni Rubbettino un libro su un diplomatico tedesco, Eitel
Friedrich Moellhausen, che era a Roma come console generale di
Germania,quando l’attentato di via Rasella, il 23 marzo 1944, uccise 33
soldati tedeschi del reggimento di polizia SS Bozen e fece qualche
decina di feriti. Il racconto di Donatella Bolech Cecchi è
particolarmente interessante là dove descrive il dibattito delle
autorità tedesche sulla rappresaglia. Il generale Kurt von Maelzer,
comandante militare della città, voleva radere al suolo l’intero blocco
di case fra via Rasella e via Quattro Fontane. Moellhausen e Dollmann,
collaboratore del generale Wolff, comandante della Waff-SS, si opposero.
Maelzer, furioso, si appellò al maresciallo Kesselring comandante in
capo delle forze tedesche in Italia. Si formarono così due partiti:
quello che voleva una rappresaglia diffusa contro la popolazione civile e
quello dei «moderati» che temevano le reazioni popolari. Furono persino
avviati i preparativi per la deportazione di migliaia di uomini, voluta
da Himmler, ma i militari obiettarono che l’operazione avrebbe
comportato l’uso di due divisioni in un momento in cui nessun reparto
poteva essere allontanato dal fronte. Moelhausen, nel frattempo,
continuava a ripetere che «la Germania non poteva trattare Roma come un
agglomerato di selvaggi; mai la storia glielo avrebbe perdonato».
La
formula adottata, alla fine, fu quella di Kesselring: dieci italiani
per ciascuno dei morti tedeschi, da scegliere fra i «Todeskandidaten»,
vale a dire fra coloro che erano già stati condannati a morte o erano
comunque passibili di una tale condanna. Fu questa una delle ragioni per
cui Kesselring fu condannato a morte da un tribunale britannico a
Venezia il 6 maggio 1947. Ma la sentenza, grazie a un intervento di
Winston Churchill, fu successivamente rivista e il condannato tornò in
libertà nell’ottobre del 1952. Un anno dopo apparvero le sue memorie
intitolate Soldat bis zum Letzten Tag (soldato sino all’ultimo giorno).