Corriere 5.5.16
L’embrione che cresce in autonomia
I primi 13 giorni dell’embrione. Ecco come inizia la vita umana
Osservato
in vitro per quasi due settimane: è stato scoperto che fino a tredici
giorni — ma probabilmente anche oltre, però la legge non consente la
sperimentazione — gli ovuli fecondati e coltivati in vitro non hanno
nessun dialogo con il corpo materno
di Anna Meldolesi
Due
ricerche, una americana e l’altra inglese. Stessa conclusione: è stato
scoperto che fino a tredici giorni — ma probabilmente anche oltre, però
la legge non consente la sperimentazione — gli ovuli fecondati e
coltivati in vitro non hanno nessun dialogo con il corpo materno. Gli
embrioni sono capaci di auto-organizzarsi, seguendo un piano di sviluppo
ordinato anche in assenza di segnali esterni.
All’inizio
è un ovulo fecondato. Poi inizia a somigliare a una mora. Quindi
diventa una sfera cava, che si impianta nell’utero una settimana dopo la
fecondazione. È in questa fase, detta blastocisti, che le cellule si
avviano ad assumere identità diverse. Ma proprio questo stadio cruciale
dello sviluppo dell’embrione finora era rimasto come una scatola chiusa,
inaccessibile allo sguardo degli scienziati. Il velo viene sollevato
adesso da due lavori pubblicati sulle riviste Nature e Nature Cell
Biology , che hanno riprodotto in vitro la fase dell’annidamento in
utero, con un substrato artificiale al posto del grembo materno. Le
sorprese non mancano, e nemmeno gli interrogativi bioetici.
Innanzitutto
siamo di fronte a un nuovo record. Nessuno era riuscito a coltivare
degli embrioni per più di nove giorni, in genere anzi non si riusciva a
superare la settimana. Ora due gruppi di ricerca, uno americano e
l’altro inglese, hanno dimostrato che è possibile spingersi fino al
tredicesimo giorno, e probabilmente oltre, fornendo agli embrioni il
giusto ambiente chimico e una matrice adatta a cui attaccarsi.
Gli
esperimenti sono stati interrotti entro le due settimane dalla
fecondazione, per rispettare le linee guida internazionali che fissano
un limite temporale massimo alla possibilità di fare ricerca sugli
embrioni umani. Ma è bastato per scoprire che il dialogo con il corpo
materno non è ancora necessario in questa fase. Gli embrioni sono capaci
di auto-organizzarsi, seguendo un piano di sviluppo ordinato anche in
assenza di segnali esterni, più a lungo del previsto. Un po’ come
succede alle molecole d’acqua che si dispongono simmetricamente per
formare i fiocchi di neve.
Gli embrioni cresciuti in provetta non
sono delle riproduzioni tridimensionali perfette di quelli «naturali»,
ma mostrano una struttura simile con tanto di cavità amniotica e sacco
vitellino. I ricercatori hanno notato anche alcune differenze
inaspettate rispetto ai modelli animali, per quanto riguarda la
diversificazione delle linee cellulari da cui poi dipende
l’organizzazione dei tessuti. Probabilmente sono dovute al timing e alle
modalità di accensione dei geni chiave.
La ricerca sui topi,
evidentemente, non basta per farsi un’idea precisa degli inizi della
vita umana. I risultati ottenuti dal gruppo di Ali Brivanlou della
Rockefeller University e da quello di Magdalena Zernicka-Goetz di
Cambridge inaugurano dunque un nuovo filone di studi che potrebbe
contribuire a migliorare le metodiche di riproduzione assistita, la
comprensione delle cause degli aborti precoci e la coltivazione delle
cellule staminali. Ma una volta rimosso l’ostacolo tecnico
all’osservazione degli embrioni in fase post-impianto, ne restano altri
bioetici e legali.
In Italia la ricerca sugli embrioni umani è
vietata per legge, ma la comunità scientifica internazionale finora ha
rispettato il limite dei 14 giorni proposto nel 1979 negli Stati Uniti,
abbracciato nel 1984 dalla commissione Warnock in Gran Bretagna e poi
fatto proprio da altri Paesi oltre che da numerose società scientifiche.
Perché
proprio questo numero, quattordici? La spiegazione più accettata è che
prima di questo momento l’embrione potrebbe ancora dividersi in due o
fondersi, dopo acquisisce un’esistenza individuale grazie alla comparsa
di una struttura detta stria primitiva. Questo però non significa che
guadagni improvvisamente un diverso status morale, ha notato in un
commento il bioeticista Insoo Hyun insieme con Amy Wilkerson e Josephine
Johnston.
Lo spartiacque ha funzionato come strumento regolatorio
per delimitare lo spazio per la ricerca scientifica all’insegna di un
compromesso tra diverse sensibilità culturali e religiose. Ma è stato
accettato e rispettato anche perché sembrava un limite tecnicamente
invalicabile. Adesso, insomma, potrebbe essere arrivato il momento di
metterlo in discussione, sostengono gli studiosi. Magari organizzando
una conferenza internazionale che riunisca scienziati, giuristi e
bioeticisti, propone Nature .