Repubblica 3.5.16
Un saggio di Adriano Prosperi rimuove alcuni luoghi comuni sull’ordine religioso di papa Francesco
Storia dei gesuiti molto dialogo e poco gesuitismo
di Simonetta Fiori
«Ho
confessato al Papa i miei peccati e non mi ha dato neanche la
penitenza. Un momento dolce, per niente inquisitorio ». È accaduto una
settimana fa in piazza San Pietro: una quindicenne scout ammessa al
cospetto di papa Francesco ha saputo restituire l’inatteso colloquio con
il pontefice come atto di ascolto e non di giudizio. Il caso vuole — ma
forse non è solo un caso — che proprio in questi giorni stia uscendo da
Einaudi un bellissimo libro di Adriano Prosperi sui primi gesuiti tra
Cinquecento e Seicento (“La vocazione”). E un capitolo importante di
queste storie di iniziazione è dedicato alla confessione.
È il
solo punto in cui lo storico fa esplicito riferimento a papa Francesco,
artefice nel 2013 della canonizzazione del sacerdote gesuita Pierre
Favre. «È stata una scelta mirata», racconta Prosperi dal suo studio di
Pisa. «Favre faceva parte del gruppo di mediatori che nel 1541 andarono a
parlare con i luterani a Ratisbona. Piuttosto indifferente alle
questioni teologiche, annotò nel suo “memoriale” quale doveva essere il
modo più giusto per avvicinarsi agli eretici: mostrare nei loro
confronti molto amore, anche attraverso la confessione che era una
conversazione amichevole. In tal modo, secondo Favre, sarebbero riusciti
a convincere lo stesso Lutero a pentirsi e riprendere l’abito
religioso». Nella figura del confessore si affacciano due immagini: il
giudice e il medico. «Il giudice passa in rassegna i peccati e pronuncia
la sentenza; il medico si mette all’ascolto e cura le ferite
dell’anima. È questo secondo aspetto che i gesuiti hanno sempre
coltivato nell’esercizio della confessione».
È difficile leggere
il nuovo saggio di Prosperi senza pensare al leader mondiale più
influente scaturito dalla Compagnia di Gesù. Una figura che non viene
mai nominata — se non in nota — ma che resta sullo sfondo anche perché
lo storico allunga la sua lente sul processo di formazione delle seconde
generazioni dei gesuiti: non tanto i compagni di Ignazio di Loyola, più
studiati e conosciuti, ma «la generazione di coloro che scoprirono
l’ordine quando cominciava a espandersi in Italia, Spagna e nel resto
dell’Europa cattolica e allungava la sua proiezione fino ai confini
orientali delle terre conosciute». Un percorso ricostruito attraverso
«le relazioni autobiografiche » imposte ai gesuiti dall’alto con un
duplice scopo: il racconto ad uso interno ed esterno della vocazione e
il richiamo costante al momento della scelta di obbedienza assoluta a
una forza superiore. Ed è questo il passaggio più lacerante su cui fanno
luce le “vocationes”, lo strappo dalla famiglia naturale per entrare in
quella spirituale rappresentata dalla Compagnia di Gesù. Una ribellione
al padre carnale in nome dell’obbedienza a un altro padre, che spesso
suscitava una “tempesta de parenti” foriera di grandi avventure e
peripezie.
Le storie raccolte da Prosperi narrano di genitori
ostili e talvolta perfino maneschi, di madri disperate, di congiunti
potentissimi che si adoperano in mille maniere per scongiurare
l’allontanamento del ragazzo. «Per i novizi si trattava di una
rinascita, di una nuova vita che tagliava radicalmente i ponti con
quella precedente», spiega lo storico. «Ed occorreva rinnovarne
costantemente il ricordo anche per confermare una scelta che doveva
essere irrevocabile». Solo così si poteva coltivare una disciplina
interiore tale da far fronte alle tentazioni del peccato. «E solo in
questo modo, rinnovando il patto di fedeltà alla nuova famiglia, i
gesuiti potevano andare soli nel mondo, come Matteo Ricci nella
solitudine dell’immensa distesa cinese».
Ci sono degli elementi
ricorrenti — in questo romanzo di formazione dei gesuiti — che aiutano a
capire di più la figura di papa Francesco? «Un tratto che distingue
l’ordine fondato da Ignazio è l’apertura senza limiti al diverso
religioso», risponde Prosperi. «E soprattutto la disponibilità a
percepire nei comportamenti una religiosità diffusa, anche se non
espressamente manifesta. Penso a Fran- cesco Saverio che approdato in
Giappone disse agli studenti universitari europei: correte perché qui si
tratta di rivelare a questo popolo che sono cristiani anche se non lo
sanno. Intendiamoci: erano tempi di guerra di religione e anche i
gesuiti dovettero trafficare pesantemente contro i nemici eretici. Ma al
fondo rimase questa convinzione che sulla base di precetti morali
semplici ci si poteva incontrare. Bisognava ascoltare gli altri. E, come
diceva Ignazio, bisognava “entrare con l’altro e uscire con se stesso”:
un motto che evoca il rituale della lotta giapponese, una cedevolezza
apparente che ti permette di abbracciare il tuo interlocutore per
portarlo dalla tua parte».
Per chi si aggira nei dintorni di
Riforma e Controriforma — Prosperi è uno dei massimi specialisti — è
impossibile non imbattersi nella compagnia di Gesù. Ma il libro nasce
anche da una necessità: quella di liberare i gesuiti dallo spesso velo
di luoghi comuni che resiste nel tempo. «Pochi stereotipi si sono
impiantati nel linguaggio comune lasciandovi impronte così tenaci»,
commenta Prosperi. «Nel bene e nel male, nell’apologia e nell’accusa di
incarnare un potere segreto, responsabile delle pagine più nere».
Gesuitismo come sinonimo di ipocrisia o scaltrezza nefasta al pari del
machiavellismo. Lo studioso sceglie un’altra strada che lo porta a
rappresentarli come «un élite di militanti votati all’obbedienza
assoluta». Ma questa attitudine finisce per richiamare un’altra analogia
invalsa nel secolo scorso e tuttora resistente: l’accostamento ai
rivoluzionari novecenteschi. «È stata Sabina Pavone a farmi notare che
Emmanuel Carrère nel Regno attribuisce a Pjatakov la frase: “Se il
partito lo richiede, un vero bolscevico è disposto a credere che il nero
sia bianco e il bianco nero”. In realtà era una delle Regole di Ignazio
di Loyola». E anche la pratica dell’autocritica viene vista come
elemento comune a gesuiti e comunisti nella costruzione dell’uomo nuovo.
Un altro aspetto valorizzato da La vocazione è l’invenzione dei
Collegi, «luoghi di alta educazione per ragazzi di buona famiglia». Nel
1750 c’erano cinquecento collegi gesuitici in Europa, altri
duecentocinquanta nel mondo. E la qualità della loro opera educativa
veniva celebrata anche dai non cattolici. «Ma all’origine ci fu una
esigenza fondamentale: quella di selezionare le nuove leve gesuitiche,
dotate di forte convinzione e di mezzi intellettuali adeguati». Essere
giovani è una promessa straordinaria. E i gesuiti furono tra i primi a
esserne consapevoli. «Seppero riconoscere il tesoro nascosto nella
plasticità delle giovani e spesso giovanissime intelligenze,
intercettando il bisogno di sapere che proveniva da tutta la società. Fu
l’asso calato da Ignazio nel secolo che scopriva la scuola».