Repubblica 3.5.16
I conti della ricerca
“Altro che investimento, i soldi sono meno di quelli che stanziò la Gelmini”
di Luca Fraioli
Al
professor Giorgio Parisi i conti non tornano. Il ministro Stefania
Giannini ha appena finito di presentare il Programma nazionale per la
ricerca, con i 2,5 miliardi stanziati per il triennio 2016-2018, e in un
angolo del salone del ministero di Viale Trastevere il fisico teorico,
uno dei più brillanti d’Italia, scuote la testa guardando il foglietto
stropicciato su cui ha appuntato le cifre. Cosa succede professore?
«Questo Pnr è interessante, ma c’è una cosa che non capisco. L’ultimo
Programma aveva coperto il periodo 2011-2013. Ora arriva questo per i
prossimi tre anni. Rimangono scoperti il 2014 e il 2015: che fine hanno
fatto i soldi che avremmo dovuto avere in quegli anni?».
I numeri
della ricerca mettono a dura prova anche le menti matematiche più
raffinate. Fanno discutere soprattutto quei 2,5 miliardi annunciati dal
presidente del Consiglio Matteo Renzi. Sono tanti o pochi? «Sono
certamente meno dei 2,7 con cui la Gelmini finanziò il suo Pnr nel 2011,
altro che investimento nella scienza da parte di questo governo», è
l’accusa che circola insistentemente in Rete in queste ore. In effetti,
anche chi ha materialmente partecipato alla stesura del Programma
nazionale per la ricerca firmato Giannini non può che ammetterlo: «Ci
vorrebbero più soldi, ma dopo anni di tagli abbiamo cercato di fermare e
invertire la tendenza », dicono dallo staff del Miur. «Inoltre, chi ha
redatto il Pnr precedente ha potuto contare su fondi europei Pon
(Programmi operativi nazionali) che erano il doppio degli attuali».
Per
il ministro è comunque un successo: «Fino a pochi mesi fa i soldi
destinati a questo Pnr erano meno di 1,9 miliardi di euro, siamo
riusciti a recuperare altri 500 milioni, il 25% in più». E l’accusa di
aver tirato fuori dal cassetto un Programma che giaceva lì dai tempi del
governo Letta? «Non voglio polemizzare con nessuno, ma noi abbiamo
trovato solo un foglio con delle cifre. Quello appena presentato,
invece, è un vero programma che cambia radicalmente l’approccio
dell’Italia alla ricerca scientifica».
Il documento è di 96
pagine, sintetizzate in 10 slide che riassumono come verranno spesi i
2468 milioni stanziati. La fetta più grande della torta (il 43%) andrà
al capitale umano: una serie di azioni per attrarre e trattenere in
Italia i migliori ricercatori. Con un miliardo e venti milioni di euro
si creeranno “dottorati innovativi” (anche fuori dall’Università),
incentivi per aiutare i vincitori di Erc (i grant dello European
research council) a fare le loro ricerche in Italia, nuovi posti da
ricercatori. Il governo prevede che con tali misure si introdurranno
6mila giovani in più nel sistema della ricerca nei prossimi 5 anni, 2700
già nel prossimo triennio. «I primi bandi saranno resi pubblici già a
fine primavera e le prime assegnazioni sono previste in autunno »,
assicura la Giannini. «Dubito che basti a colmare la voragine che si è
creata negli ultimi anni», dice Carlo Cosmelli, professore di fisica
alla Sapienza di Roma. «Dal 2008 ad oggi l’Università italiana ha perso
12mila docenti su 62mila. E oggi solo un dottorando su dieci riesce a
diventare ricercatore».
La seconda voce per importo (487 milioni)
riguarda il rapporto pubblico-privato, lo scopo è incentivare le aziende
che fanno innovazione. Cifra analoga (436 milioni, pari al 18% del
totale) è quella destinata al rilancio dell’attività di ricerca al Sud,
ottimizzando i fondi europei Pon e Por (i Programmi operativi
regionali). Alle grandi infrastrutture di ricerca (dai Laboratori del
Gran Sasso al Sincrotrone di Trieste) e al loro potenziamento sono
destinati 343 milioni di euro. E ancora: 107 milioni alla
“internazionalizzazione” (progetti per attrarre più fondi Ue,
rafforzamento delle candidature italiane in Europa) e 35 milioni per il
quality spending (bandi più snelli, procedure di assegnazione certe, per
evitare sprechi e doppioni). Per un totale, appunto, di due miliardi e
mezzo.
Ma quale sarà la scienza su cui l’Italia scommetterà nei
prossimi anni? Il Pnr individua 12 aree di specializzazione della
ricerca applicata, i settori che secondo il governo saranno strategici
per il nostro Paese. I primi quattro sono conside- rati “prioritari”:
aerospaziale, agrifood, fabbrica intelligente, salute. Poi ci sono
quelli “ad alto potenziale”: design-creatività- made in Italy, chimica
verde, cultural heritage, blu growth (economia legata al mare). Due sono
le aree tecnologiche emergenti: smart communities e tecnologie per gli
ambienti di vita. Energia e mobilità, infine, sono le aree
“consolidate”, che però potrebbero vivere una seconda giovinezza
recuperando competitività. Queste 12 specializzazioni sono state scelte
incrociando le eccellenze italiane con quello che interessa all’Europa
(e che la Ue è pronta a finanziare, per esempio con il programma Horizon
2020).
«In questa scelta vedo il punto più debole di un Pnr che
ha anche diversi lati positivi», commenta Giuseppe Mingione, professore a
Parma e uno dei matematici più citati al mondo. «Io mi occupo di
matematica teorica. Se le mie ricerche, o quelle del professor Parisi,
non dovessero rientrare, come probabile, in una delle 12 aree di
specializzazione, che facciamo? Chiudiamo e andiamo a casa?».
Comprensibilmente
soddisfatto, invece, Roberto Battiston, presidente dell’Agenzia
spaziale italiana: il suo settore è in cima ai pensieri del governo
perché considerato altamente strategico. «È vero, ma abbiamo anche
dimostrato che investire nello spazio può avere un ritorno economico:
sono stati già venduti ai privati 15 voli del nostro vettore nazionale
Vega ». Battiston è stato ricercatore e professore universitario, non
ignora che molti suoi ex colleghi stanno protestando per quello che
considerano un ennesimo taglio. «Li invito a non guardare solo i valori
assoluti dei fondi stanziati, ma a valutare come verranno spesi. Un
Programma nazionale per la ricerca mancava dal 2014. Dopo due anni, il
governo Renzi ha deciso di mettere l’accento sulla ricerca. Era ora».