Repubblica 30.5.16
“Vi eravate commossi per il mio piccolo Alan ma ora costruite altri muri”
Abullah Kurdi: “La foto di mio figlio sulla spiaggia di Bodrum è un simbolo, eppure niente è cambiato per chi fugge da fame e paura”
intervista di Fabio Tonacci
Otto mesi dopo, Abdullah Kurdi è un condannato alla vita con un ultimo desiderio che nessuno ha esaudito. «I bambini profughi continuano ad affogare ogni giorno, la guerra in Siria non è stata fermata. Vedo Stati che costruiscono muri e altri che non ci vogliono accogliere. Il mio Alan è morto per niente, poco è cambiato». Il suo Alan. Un corpicino con la maglietta rossa e le scarpe blu che le onde adagiarono pietosamente sulla spiaggia di Bodrum dopo il naufragio. Era il settembre scorso, e per qualche settimana la foto scattata da una reporter turca fu il macigno sulla coscienza dell’Europa. A bordo del gommone che puntava all’isola greca di Kos erano in dodici. C’era Abdullah, siriano in fuga da Kobane. C’era sua moglie Rehan. C’erano Alan, tre anni, e l’altro figlioletto Galip, cinque anni. Li ha persi tutti. Lui è sopravvissuto.
Cosa ricorda di quei giorni?
«Ho i ricordi annebbiati, come fossi stato ubriaco. Ero assediato dai media di tutto il mondo, rilasciavo un’intervista dopo l’altra. Il clamore mi impediva di realizzare che non avevo più la mia famiglia. I miei figli, erano meravigliosi... mi sono scivolati dalle mani, quando cademmo in acqua. Vi prego chiamatelo Alan e non Aylan come a volte scrivono i giornalisti. Ci tengo».
I trafficanti di uomini condannati dalla polizia turca per quel naufragio, Muwafaka Alabash e Asem Alfrhad, l’hanno accusata di far parte della rete degli scafisti.
«Ma quale scafista metterebbe la propria famiglia su un gommone tra i disperati? Uno scafista ha i soldi e le conoscenze per prendere un motoscafo e far viaggiare con dignità e sicurezza i suoi figli. Questa accusa è un’offesa all’intelligenza di chi l’ascolta».
Ha seppellito sua moglie e i suoi figli a Kobane. Vive ancora accanto a loro?
«No, sono a Erbil, nel Kurdistan iracheno. Sono stato a Kobane per un mese dopo il funerale, ma mancava tutto, la città era distrutta ed ero solo. Da un giorno all’altro, poi, sono spariti tutti. Non ce la facevo più, stavo per perdere la testa e il cuore mi faceva male da quanto soffrivo ».
Nessuno l’ha aiutata?
«Non le organizzazioni internazionali, né quelle siriane o curdo-siriane. La solidarietà si era dissolta, ad eccezione dell’ex premier turco Davutoglu che mi ha dato 5.000 dollari. Per fortuna mi è arrivata la telefonata del premier del Kurdistan iracheno Nechirvan Barzani che mi ha invitato a Erbil, dove mi ha comprato una casa ».
Dopo la tragedia, nell’intervista con Repubblica, lei si augurava che il sacrificio di Alan e di Galip cambiasse l’atteggiamento dei governi europei nei confronti della questione profughi. Oggi cosa pensa?
«Per un po’ sembrava che la foto di Alan avesse smosso qualcosa negli animi dell’opinione pubblica occidentale e nelle stanze della politica. A mio figlio sono state intitolate scuole e campagne, e questo mi fa piacere perché può aiutare a stimolare l’empatia della gente e a non dimenticare la mia famiglia. Ma le notizie di nuovi naufragi, di muri eretti lungo la via balcanica, delle polemiche tra i governi, mi dicono che in realtà, al di là della reazione emotiva sul momento, poco è cambiato ».
In Europa stanno guadagnando terreno partiti xenofobi, e a Bruxelles i membri Ue fanno fatica a distribuire equamente l’accoglienza dei migranti. Qual è il suo messaggio per le istituzioni?
«Ai governi e alle persone spaventate dall’arrivo di tanta gente vorrei dire che non è più moralmente accettabile chiudere le porte in faccia a chi fugge dalla morte e dell’umiliazione. Chi si mette su un barcone non ha alternative, credetemi ».
Come giudica il comportamento del governo turco nei confronti dei rifugiati siriani?
«Sono grato alla Turchia, perché ha dato ai miei connazionali molti permessi di lavoro e ha consentito a tanti di prendere la cittadinanza».
Cosa farà adesso?
«Barzani mi ha promesso che aprirà una fondazione umanitaria per l’assistenza dei bambini intitolata ad Alan, e ci lavorerò anch’io. Voglio essere la mano tesa verso i più piccoli, per accogliere chi ha bisogno e dar loro la possibilità di non aver paura, di non aver più fame. E di ricominciare a giocare ».
(Ha collaborato Fouad Roueiha)