Repubblica 3.5.16
La Costituzione non si cambia con un plebiscito
di Salvatore Settis
CHIUNQUE
intenda il referendum d’autunno sulla Costituzione come un plebiscito
pro o contro il governo fa un errore di grammatica istituzionale. La
Costituzione non è un regolamento condominiale.
NON si riforma per
comodo di chi governa, né si respinge se l’attuale governo non ci
piace. Le Costituzioni vanno pensate “per sempre”: come quella
americana, che dal 1789 ha avuto solo 27 emendamenti, dei quali dieci
tutti insieme, e dal 1992 nessuno. Ma l’equivoco del plebiscito oscura
la sostanza dei problemi, spinge a trattare il tema come una
competizione sportiva e non come una discussione sul merito, da valere
nei tempi lunghi. Dimenticando che dalla tenuta della Costituzione
dipende la vita della democrazia, anzi della Repubblica. Certo, non è
facile discutere nel merito una riforma che modifica in un sol colpo 47
articoli della Carta; mentre dal 1948 ad oggi si erano cambiati 43
articoli, a uno a uno, seguendo l’aureo principio secondo cui le
revisioni della Costituzione devono essere «puntuali e circoscritte, con
una specifica legge costituzionale per ogni singolo emendamento»
(Pizzorusso). Nonostante questa valanga di modifiche, è assolutamente
necessario entrare nel merito. Con un intervento tanto invasivo, è
statisticamente improbabile che vada tutto bene o tutto male. Proverò a
indicare due punti che ritengo accettabili e due che mi paiono da
respingere. Va bene aggiungere la “trasparenza” tra i requisiti dei
pubblici uffici (art. 97). La parola non era nel linguaggio politico del
1948, lo è adesso. Forse non è proprio la Costituzione il luogo per
dirlo, ma in fondo perché no? Altro punto su cui si può esser d’accordo,
la restrizione del potere del governo di emanare decreti legge (art.
77). Ma punti ancor più importanti suscitano gravi preoccupazioni. Ne
indico solo due. L’art. 67 della Costituzione vigente dice: «Ogni membro
del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni senza
vincolo di mandato» (ossia senza obbligo di ubbidienza verso il
partito, ma con piena responsabilità personale). Questo principio è
stato già svilito dall’indecorosa migrazione di parlamentari da un
partito all’altro (a fine gennaio 2016 si contavano 325 metamorfosi dei
voltagabbana di questa legislatura). Ma nella proposta di riforma
costituzionale il testo vigente, breve e chiaro, viene smembrato e
disfatto. Il nuovo articolo 67 direbbe infatti: «I membri del Parlamento
esercitano le loro funzioni senza vincolo di mandato ». Scompaiono le
parole «rappresenta la Nazione», trapiantate (depotenziandole) nell’art.
55, da cui risulta che «Ciascun membro della Camera dei deputati
rappresenta la Nazione». Avremo dunque un Senato i cui membri non
rappresentano piú la Nazione, perché «il mandato dei membri del Senato è
connesso alla carica ricoperta a livello regionale o locale» (cosí la
relazione esplicativa). Ma siccome gli ex Presidenti della Repubblica
saranno senatori a vita, avremo l’assoluta meraviglia di Presidenti come
Ciampi e Napolitano che non rappresenteranno più la Nazione, bensì le
istanze locali.
Ma come verrà eletto, secondo la riforma, il
Presidente della Repubblica? Lo faranno deputati e senatori, come ora
(art. 83). Ma con una differenza importante. Oggi il Presidente è eletto
con una maggioranza di due terzi dell’assemblea nei primi tre scrutini
(così nel caso di Ciampi, 1999), con la maggioranza assoluta dal quarto
in poi (così Napolitano, 2006). In futuro, se la riforma sarà approvata
nel referendum, non sarà più così. Nei primi tre scrutini resta valida
la maggioranza di due terzi dell’assemblea, dal quarto in poi si passa
ai tre quinti dell’assemblea; ma la vera novità della riforma scatta a
partire dal settimo scrutinio: da questo momento in poi basterà la
maggioranza assoluta non più dell’assemblea, bensì dei votanti. In altri
termini, se al settimo scrutinio dovessero votare solo 20 fra deputati e
senatori, a eleggere il Presidente basteranno 11 voti. Gli assenti
dall’aula avranno sempre torto. Si aprirebbe così la gara a colpi di
mano, delegittimazioni, conflitti procedurali. Un Presidente eletto
cosí, certo, non «rappresenta la Nazione» nemmeno quando è in carica,
figurarsi da senatore a vita. Chi ha votato questo articolo in aula
doveva essere davvero assai distratto.
Nel merito bisogna entrare
(non lo farò ora) anche sul neo-bicameralismo che nasce dal nuovo Senato
non elettivo. E’ difficile, è vero, render conto dell’intrico di
competenze fra le due Camere quale risulta dall’ammucchiata verbale
della riforma (l’art. 70, nove parole nella Costituzione vigente, ne
conta 434 nel nuovo). Ma è importante parlarne nel merito: perché
criticare il “bicameralismo perfetto” della Costituzione vigente non
vuol dire necessariamente sottoscrivere un testo che «non funzionerà mai
e complicherà in modo incredibile i lavori del Parlamento» (Ugo De
Siervo).
Davanti a enormità come quelle degli artt. 67 e 83 (e non
sono le sole), c’è da chiedersi perché mai l’elettore debba essere
obbligato a votare in blocco con un SI’ a tutto (comprese le modifiche
che detesta) o con un NO a tutto (comprese quelle su cui è d’accordo).
E’ stato uno svarione istituzionale cucinare in un unico testo una
riforma tanto estensiva; ma è ancora possibile rimediare in parte
segmentando i quesiti referendari in più punti, come propone il
documento firmato da 56 costituzionalisti, fra cui 11 presidenti emeriti
della Corte Costituzionale. Sarebbe più rispettoso della Costituzione,
degli elettori, della democrazia. Ma il governo avrà il coraggio di
farlo?