Repubblica 26.5.16
Gustavo Zagrebelsky
Per l’ex
presidente della Consulta la riforma del Senato sommata all’Italicum
“realizza il sogno di ogni oligarchia: umiliare la politica a favore
delle tecnocrazie”
“Renzi e il referendum, il mio No per evitare una democrazia svuotata”
intervista di Ezio Mauro
PROFESSOR
Zagrebelsky, dunque più che a un referendum saremmo davanti a un golpe,
come sostiene il fronte del “no” alla riforma che lei guida insieme a
altri dieci ex presidenti della Consulta, e a molti costituzionalisti?
Non lo avete mai sostenuto nemmeno davanti agli abusi di potere di
Berlusconi e alle sue leggi ad personam: cos’è successo?
«Nel
“fronte del no” convergono preoccupazioni diverse, come è naturale.
Vorrei però che si lasciassero da parte le parole a effetto. L’atmosfera
è già troppo surriscaldata. Contesto la parola golpe, non l’allarme.
Come si fa a non vedere che il potere va concentrandosi e allontanandosi
dai cittadini comuni? Non basta per preoccuparsi?».
Sono qui per sentire lei, e aiutare i lettori a capire. Dove vede questo disegno di esproprio del potere?
«Non
penso a una “Spectre”, per intenderci. Vedo un progressivo svuotamento
della democrazia a vantaggio di ristrette oligarchie. Per ora le forme
della democrazia reggono, ma si svuotano. Si parla di post-democrazia e,
se subentra l’autoritarismo, di “democratura”. Ripeto: non c’è da
preoccuparsi?».
Tutto questo per il referendum sulla riforma del Senato?
«Il
Senato è un dettaglio, o un’esca. Meglio se lo avessero abolito del
tutto. È all’insieme che bisogna guardare. Rispetto ai mali che tutti
denunciamo (rappresentanti che non rappresentano, partiti asfittici e
verticistici e, dall’altro lato, cittadini esclusi e impotenti) che
significa la riforma costituzionale unita a quella elettorale? A me pare
di vedere il sogno di ogni oligarchia: l’umiliazione della politica a
favore di un misto di interessi che trovano i loro equilibri non nei
Parlamenti, ma nelle tecnocrazie burocratiche. La conseguenza è che
viviamo in un continuo presente. Il motto è “non ci sono alternative”, e
così il pensiero è messo fuori gioco».
Lei ha avuto
responsabilità istituzionali, è stato presidente della Consulta: non ha
mai sollevato questo allarme coi vertici dello Stato?
«Con “i
vertici” ho poche occasioni d’incontro. Ma ne ricordo uno, al Quirinale
col presidente Napolitano. Gli parlai dell’alternativa che si prospetta
sempre, quando le condizioni sociali si fanno strette e il malessere
aumenta, tra chiusure autoritarie e aperture democratiche: o la ricerca
di nuove strade o l’insistenza su quelle vecchie che pesano sui gruppi
sociali più deboli».
Ad esempio?
«Pensi al modo abituale di
tirare avanti esponendosi ai creditori. Il debitore finisce per cadere
totalmente nelle loro mani. Nel diritto antico potevi finire schiavo.
Oggi puoi essere spogliato. Si canta vittoria quando la finanza
internazionale rifinanzia il debito pubblico e non si vede il nodo del
cappio che si stringe. Eppure c’è l’esempio della Grecia che parla
chiaro. Lo stato sociale è allo stremo e si sono chiesti in garanzia
spiagge, isole e porti, se non anche il Parte- none».
Io sono più
preoccupato per questi problemi che per la riforma del Senato: il
welfare state, quella che abbiamo chiamato l’economia sociale di
mercato, la democrazia del lavoro fanno parte della civiltà europea, non
le pare?
«Anche per me questa è la vera posta in gioco. Guardi
però che tutto nel nostro discorso si tiene, dal welfare al referendum.
Sennò non si capirebbe, di fronte all’enormità dei problemi che abbiamo,
tanto accanimento nei confronti del povero Senato. Il “sì” spianerebbe
una strada; il “no” farebbe resistenza».
Insomma, dalla crisi si può uscire con meno o più democrazia?
«Sì.
La prima strada porta alla rottura dei vincoli sociali, diciamo pure
alla distruzione della società, condannando i più deboli all’impotenza e
all’irrilevanza. La seconda passa per un grande discorso democratico,
franco, sincero, che non nasconda le difficoltà e chiami tutti a uno
sforzo di responsabilità, ciascuno secondo le proprie possibilità,
mobilitando le energie civili del Paese e recuperando sovranità».
Anche lei pensa che l’Europa sia un nemico, come dicono ogni giorno gli opposti populismi?
«Per
nulla. Ma l’Europa è una scelta, non un guinzaglio. L’articolo 11 della
Costituzione prevede la possibilità che l’Italia limiti la sua
sovranità a favore di organismi internazionali, ma a condizione che ciò
serva alla pace e alla giustizia tra le Nazioni. Che cosa vuol dire? Che
non è un’abdicazione incondizionata alla finanza, entità immateriale
con conseguenze molto concrete, ma una partecipazione consapevole e
paritaria a istituzioni democratiche sovranazionali. L’Europa dovrebbe
significare più, non meno democrazia».
Sta dicendo che l’Europa è un destino democratico da scegliere ogni giorno, non un vincolo di cui si smarrisce la legittimità?
«È
l’opposto della semplificazione brutale dei nazionalisti. Anzi, un
recupero dello spirito di Ventotene, un “plebiscito d’ogni giorno” dei
popoli, non dei mercati. Invece si è pensato che unendo i mercati la
politica avrebbe seguito. Ma gli interessi economici spesso sono ostili
alla politica, e la riducono a intendenza. Speriamo che non sia troppo
tardi».
Ma secondo lei la politica accetta consapevolmente questa diminuzione di ruolo e di peso, o decide il rapporto di forza?
«C’è
un pensiero unico in campo, tra l’altro responsabile della crisi.
Perfino un riformista come Keynes è considerato un eretico. La politica,
dicevo, si è ridotta a una dimensione puramente esecutiva, con
interventi tampone, incapace di un pensiero autonomo e prospettico.
L’implosione è sempre in agguato».
Professore, non è troppo pessimista?
«Non
parlerei di pessimismo, ma di prudenza, una virtù che nel governo delle
società non è mai troppa. A parte tutto, la riforma è scritta
malissimo, illeggibile, talora incomprensibile».
Sta facendo un problema di forma?
«Di
sostanza, prego, perché una costituzione democratica ha innanzitutto
l’obbligo della chiarezza. Il linguaggio dei riformatori rivela due
difetti: semplificazione e radicalità, brutalità e ingenuità».
Si può essere brutali e ingenui al tempo stesso?
«Certo.
Prenda lo slogan: la sera delle elezioni si saprà chi ha vinto. Non le
sembra che riveli una mentalità al tempo stesso sbrigativa e ingenua? In
quel giorno ci saranno vincitori e vinti e vae victis!».
Ma lo slogan non indica anche un rimedio alla palude, all’eterna tentazione del consociativismo?
«A
patto di non considerare la vittoria come un’unzione sacra che permette
di insultare chi non è d’accordo: sindacati, professori, magistrati,
pubblici amministratori, con l’idea che siano avversari da spegnere. Un
governante saggio non dovrebbe crearsi il nemico perché, appena le cose
incominceranno ad andare male, sarà chiamato a pagare un conto salato».
Ma nel Paese dell’eterno democristiano, non è meglio un legame diretto tra il voto e il governo?
«Perché
“diretto” sarebbe “non democristiano”? A me pare che proprio l’idea del
vincitore e dello sconfitto alimenti una vocazione tipica da noi: il
timore d’essere lasciati nel campo della sconfitta. Così, c’è stata e
c’è una vocazione potente a salire sul carro del vincitore. E questa non
è forse la forma peggiore del consociativismo, addirittura
preventiva?».
Lei teme l’abuso del vincitore?
«Si è parlato
della Costituzione vigente come il frutto ormai superato della “paura
del tiranno”. Il tiranno, nel senso del fascismo, oggi non c’è più. Ma
il vento che tira in Europa e nel mondo non ci rende avvertiti di altri,
nuovi pericoli? Tanto più che le istituzioni che saranno sottoposte a
referendum varranno per il futuro e non sappiamo chi potrà avvalersene».
Ma ci sono costituzionalisti, come il professor Cassese, che non vedono nella riforma un rafforzamento dell’esecutivo: è così?
«Nessuno
può essere certo delle sue previsioni, ma il gioco combinato della
“velocità” nella politica e dell’elezione come investitura trasformerà
chi vince in arbitro indiscusso del sistema. Già ora il Capo del governo
è anche Capo del suo partito, e la minoranza interna è schiacciata
sotto il ricatto permanente del voto anticipato».
Anche De Mita per un breve periodo fu segretario della Dc e capo del governo: perché nessuno lo paragonò a un tiranno?
«Semplice:
perché c’erano i partiti e una legge elettorale proporzionale con le
preferenze. Oggi i partiti sono dei monoliti, col solo compito di
sostenere il Capo. E, di nuovo, tutto si tiene: con la legge elettorale
vigente in Parlamento siederanno i fedelissimi».
Lei ritiene Renzi capace di tutto questo?
«Non voglio personalizzare. Tra l’altro oggi c’è Renzi, domani può venire chiunque. I governi passano, le istituzioni restano».
Ma la società non vuole un superamento del bicameralismo perfetto?
«Lo
voglio anch’io, ma non in questo modo. Ridurre procedure e costi è
positivo. Ma tutto ciò non va cavalcato in termini antiparlamentari,
perché saremmo all’antipolitica. Di un parlamento vitale si ha sempre
bisogno. Anzi avremmo bisogno che rappresentasse il meglio del Paese,
come si diceva una volta: ridotto nel numero e più competente».
Le ricordano sempre che Ingrao si schierò a favore di una sola Camera: cosa risponde?
«L’idea
di Ingrao era la “centralità del Parlamento”. Voleva una Camera sola
per promuovere la politica in Parlamento, non per umiliarli entrambi».
E’ questa la vera ragione del suo “no”?
«E’
fondamentalmente questa, unita a ragioni specifiche. Il Senato è
ridotto, ma non abolito. Il bicameralismo rimane per una serie di
materie che possono innescare seri conflitti. È previsto che siano
risolti dalla trattativa tra i due presidenti. Ma è lecito patteggiare
sul rispetto delle regole? Le incongruenze tecniche sono molte. Non
invidio chi dovrà scrivere la nuova legge elettorale del Senato. Non si
capisce da chi saranno scelti i nuovi senatori: se sono “designati”
dagli elettori non possono essere “eletti” dai Consigli regionali. Sa
cosa le dico? Non mi dispiace non insegnare più il diritto
costituzionale il prossimo anno, perché non saprei come spiegare ai miei
studenti non una materia, ma un guazzabuglio».
Più facile spiegare la fiducia al governo da parte di una sola Camera, non crede?
«Questo
è giusto, e utile. Non sono affatto contrario a un governo che governi.
Ma dentro un sistema che respiri democraticamente a pieni polmoni».
Dal governo non può venire niente di buono?
«Perché?
Sono buone le unioni civili, l’autonomia dai vescovi, la prudenza sulla
Libia, il rifiuto della politica del “a casa nostra” verso i migranti.
Vede che non ho pregiudizi? Ma non mi piace che una discussione sulla
Costituzione si trasformi in un plebiscito sul governo. La Costituzione
non è a favore né contro qualcuno, non si vince in questa materia e non
si perde. Nessuno si gioca tutto sulla Carta, tutti ci giochiamo
qualcosa e forse molto».
Professore, non l’ho mai sentita
richiamare i grillini, come fa con il Pd, ad una responsabilità comune
sul destino del sistema: come mai?
«Potrei dirle che
l’antipolitica è figlia della cattiva politica. Ma è giunta l’ora che i
Cinque Stelle si emancipino dalle idee elitistiche e accettino la logica
parlamentare. La vera arte politica sta nel creare le condizioni dello
stare insieme. Il che non vuol dire rinunciare alle proprie ragioni, ma
cercare di diffonderle oltre i propri confini. Dire questo non significa
nostalgia del vecchio ordine, ma desiderio di buona politica».
A proposito di vecchio, cosa risponde a chi usa questo termine come un insulto contro di voi?
«Anche
noi siamo stati giovani, senza averne merito, e anche loro diventeranno
vecchi, senza colpe per questo. Ma, non era la destra che polemizzava
coi vecchi?».
Sì, ricorda gli attacchi a Spadolini, Rita Levi Montalcini sbeffeggiata in Senato: dunque?
«C’è
traccia di futurismo nella rottamazione. I giovani hanno sempre
ragione, i vecchi devono tacere. Sono battute, dice qualcuno. Ma vede:
così si smarrisce il sentimento del passaggio generazionale, la
trasmissione dell’esperienza. Si vuole rompere la tradizione in nome di
un presunto Anno Zero. Certo, l’eccesso di tradizione spegne. Ma
tagliare ogni radice per il peso della memoria espone al vento. Vivi
nell’oggi e improvvisa».