Corriere 26.5.16
L’ultimo tabù degli italiani
Il silenzio sul milione di bambini che vive in povertà assoluta
di Dario Di Vico
Come
italiani siamo generosi con le adozioni a distanza ma fatichiamo ad
accettare che da noi vivano 1,1 milioni di bambini in povertà assoluta.
Che diventano 2 milioni se esaminiamo la povertà relativa, un bambino su
5. Persino nella rissosa lotta politica è rimasto quest’ultimo tabù: la
paura di ammettere che in Italia ci sono situazioni che una volta
definivamo da «Terzo mondo» e che non coinvolgono solo ragazzi
stranieri. Questa amnesia convive con un paradosso: la quota crescente
di bambini poveri si accompagna alla diminuzione delle nascite. Nel 2015
sono state 488 mila, 15 mila in meno del 2014 e nuovo minimo storico
dall’Unità d’Italia a oggi. È anche il quinto anno consecutivo che la
fecondità cala, ora è pari a 1,35 bambini per donna, cifra che andrebbe
ancora ridotta se conteggiassimo le sole mamme italiane. La presenza di
minori indigenti fa a pugni poi con la tradizione culturale di un Paese
che ha sempre manifestato calore per i propri figli/cuccioli tanto da
sovra-accudirli e, almeno per le classi abbienti, riempirli di corsi di
nuoto/danza, apprendimento della seconda e terza lingua, controllo
compulsivo via iphone. I sociologi segnalano, infine, un ulteriore
trend: il futuro appare incerto e si fanno meno figli anche per
concentrare benessere, cure e risorse su uno solo.
La mappa del rischio
Il
recente Rapporto Istat ha dedicato attenzione al fenomeno indicando nei
minori il soggetto che in termini di povertà e deprivazione ha pagato
il prezzo più elevato della crisi, peggiorando anche rispetto agli
anziani. L’indice di povertà relativa che tra il ‘97 e il 2011 per i
minori aveva oscillato su valori attorno all’11-12%, nel 2012 ha
superato il 15% e ha raggiunto il 19% nel 2014. Al contrario tra gli
anziani — che nel ‘97 presentavano un indice di povertà di 5 punti più
grave dei minori — si è osservato un progressivo miglioramento e oggi la
povertà relativa degli anziani nel 2014 è stata di 10 punti meno dei
giovani. La crescente vulnerabilità dei minori è legata alle difficoltà
economiche e occupazionali dei genitori, il miglioramento della
condizione degli anziani è dovuta (invece) anche al progressivo ingresso
tra gli ultra 65enni di generazioni con titolo di studio più elevato e
redditi sicuri. Commenta la ricercatrice dell’Istat Linda Laura
Sabbadini: «C’è da rifocalizzare la mappa del rischio-povertà e le
misure di contenimento vanno rapportate alle nuove emergenze, superando
vecchi cliché e individuando strumenti mirati per i singoli segmenti di
popolazione». Ma dove si addensa il pericolo di indigenza minorile? I
bambini del Sud e quelli che vivono con un capofamiglia che ha
frequentato appena le elementari presentano un rischio 4 volte superiore
a quello dei residenti al Nord e dei figli di diplomati. I parametri
che si usano per definire la deprivazione sono di tipo materiale
(carenza di vestiti, giochi e cibo) e immateriale (possibilità di
festeggiare il compleanno o fare almeno una settimana di vacanza l’anno)
ma conteggiano, ad esempio, anche lo spazio per poter studiare in casa .
Trasmissione intergenerazionale
Il
disagio sfocia in prima battuta nell’abbandono della scuola e al Sud
colpisce il 2-3% dei bambini: una media considerata inaudita in campo
europeo. La onlus Save the children — molto attiva e autorevole — ha
pubblicato di recente uno studio sulla povertà educativa: solo il 13%
dei bambini tra 0 e 2 anni riesce ad andare al nido e usufruisce di
servizi integrativi e i divari tra le regioni sono impressionanti. Tra
Emilia e Campania/Calabria/Puglia ci sono anche 25 punti di distanza.
Dopo l’assenza precoce dalle aule, e compiuti i 14 anni, i ragazzi
scompaiono nella nebulosa dei Neet, ne sappiamo poco e ne vediamo
ricomparire alcuni come esercito di riserva della criminalità o nelle
bande degli ultrà del calcio. Dormono a casa dei genitori ma durante il
giorno stanno sulla strada alternandosi tra lavoretti, bullismo e
vicinanza alla droga. «La povertà minorile è grave per i danni che reca
nell’immediato ma ancora di più perché è una condanna, determina in
negativo tutto l’iter successivo di vita» sostiene Enrico Giovannini, ex
ministro del Lavoro e ora presidente dell’Alleanza italiana per lo
sviluppo sostenibile. Siamo dunque nel pieno della «trasmissione
intergenerazionale della disuguaglianza», per questi giovani non partirà
nessun ascensore sociale e anzi sono intrappolati sin dall’infanzia
nella marginalità. «Non converrebbe allora — si chiede Maurizio Ferrera,
direttore scientifico di Secondo welfare — intervenire per sostenerli
quando ancora la loro esistenza si può raddrizzare, invece di chiudere
gli occhi e doverli poi supportare per tutta la vita con scarsa
efficacia e spreco di risorse».
Proposta provocatoria
Prima
di avventurarci nel campo dei rimedi è il caso di ragionare sulla
rappresentanza di questi interessi deboli. La nostra spesa sociale è
concentrata nella tutela della vecchiaia (nel 2014 equivaleva al 14% del
Pil!) e spesso mancano le risorse per altri interventi più
lungimiranti. Senza addentrarci in semplificazioni del tipo «meno ai
nonni, più ai nipoti» è chiaro che le ragioni dei primi vengono difese
in tanti modi: con la loro presenza nella vita civile, con la
rivalutazione del valore dell’esperienza nella gestione delle
complessità ma anche con organizzazioni che esercitano pressing sui
decisori pubblici. I sindacati dei pensionati, non è certo una novità,
hanno un notevole peso nelle confederazioni e presidiano con costanza i
temi che li riguardano ma chi difende, invece, le ragioni dei minori
poveri? Per rispondere a questa domanda le Acli più di 10 anni fa con
l’ex presidente Luigi Bobba, ora sottosegretario del governo Renzi,
avanzarono una proposta provocatoria: far votare i bambini attraverso
una doppia scheda affidata alle loro mamme. «Solo così il suffragio sarà
veramente universale» sostenne e tirò fuori persino una frase del
filosofo Antonio Rosmini, «Un voto per ogni bocca da sfamare»,
ricordando come un’identica idea avesse animato nei mesi precedenti 43
deputati del Bundestag. La proposta è rimasta al palo anche se ogni
tanto rispunta carsicamente perché nonostante tutte le dissertazioni
sulla disintermediazione in realtà ci si accorge che chi non ha voce (i
bambini o le partite Iva) vorrebbe essere «mediato» e quindi caso mai il
problema è riequilibrare il peso delle lobby. Le politiche contro la
disuguaglianza passano anche di lì. Rispetto al passato, va detto,
qualcosa si sta muovendo e c’è un protagonismo di soggetti assai diversi
tra loro come le fondazioni ex bancarie e alcune sigle del terzo
settore che fa ben sperare. Proprio nei giorni scorsi Giuseppe Guzzetti
ha presentato a loro nome un fondo per il contrasto della povertà
educativa che spenderà 400 milioni in 3 anni.
La cultura «anzianista»
Quando
si passa alle famose policy c’è subito un bivio. Una vecchia visione,
fortissima a sinistra, chiede di tassare i ricchi e redistribuire ai
poveri ma si presta a mille controindicazioni non ultima l’alta
pressione fiscale e il rischio che il ritorno avvenga in modo
inefficiente e comunque tardi. Sarebbe dunque da preferire una visione
alternativa nella cultura e nella tempistica ovvero intervenire affinché
i giovani non si portino dietro il peso del retroterra familiare.
Senonché la delega all’assistenza inserita nella legge di Stabilità
2016, che avrebbe dovuto trasformare in provvedimenti quest’idea
razionalizzando l’attuale spesa per l’assistenza, è stata via via
svuotata e ciò nonostante che Bruxelles ci abbia intimato di intervenire
sull’indigenza dei minori. Come è possibile, si dirà, che la politica
italiana con la sua retorica antiausterity si faccia cogliere in fallo
dai grigi eurocrati persino in materia sociale? In realtà la lotta alla
disuguaglianza «sin da piccoli» non è nel Dna della cultura politica
italiana, la sinistra che oggi monopolizza il potere è anzianista e
filosindacale e il renzismo non ha saputo/voluto cambiare marcia. Anche
perché ha la presunzione di voler incassare un dividendo subito, da qui
la predilezione per lo strumento dei bonus (per i bebè o i 500 euro per
la cultura ai giovani). «Il riorientamento della spesa sociale verso i
minori dà effetti differiti nel tempo — spiega Ferrera — ed esce
dall’orizzonte elettorale, così si teme di far arrabbiare gli elettori a
cui sono stati tagliati i trattamenti di favori e di esporsi al rischio
di punizione nelle urne». Perché come si sa i poveri non votano e i
minori tantomeno.
(2/ continua)