Repubblica 25.5.16
Nel parco Disney di Shanghai dove la Cina dice addio a Mao
Aprirà
i battenti il 16 giugno nella città dove nacque il partito comunista
nazionale: i biglietti per le prime due settimane sono esauriti. È
finita la nostalgia della rivoluzione, i consumi all’occidentale servono
per la stabilità
di Giampaolo Visetti
A «un
salto nel mondo», chi può, non rinuncia più: dopo 95 anni Shanghai forse
assiste alla fondazione anche di un altro partito.
Tanti i vecchi: vogliono dimenticare la povertà e ritrovare un’infanzia presentabile
Venire qui in anticipo significa esibire il trofeo di chi è riuscito ad emergere dalla miseria
SHANGHAI.
Due ore in piedi sotto la pioggia calda, schiacciati fra trentamila
cinesi che calzano le orecchie nere da Topolino. In attesa, fuori dai
cancelli, pochi bambini, rari adulti e tanti vecchi, vestiti da Peter
Pan e Fa Mulan, accasciati a succhiare tagliolini liofilizzati, sperando
di poter «almeno vedere per un istante e da lontano la capanna di
Shrek». Non una bandiera con le cinque stelle gialle. Gli ex compagni
comunisti prendono ordinatamente d’assalto il simbolo del divertimento
capitalista, prima ancora che sia inaugurato.
«Ho fatto quattro
ore di treno — dice la commessa Liu Jiahui — perché oggi anch’io ho il
diritto di vivere la favola del mondo». Shanghai consuma così, in poco
meno di un secolo e nello spazio di tre chilometri, il ciclo storico del
suo partito- Stato. Nella casa-museo della fondazione rossa, nascosta
dietro il Bund, i visitatori in otto ore sono dodici, fedeli al veto
anti-Usa dei rivoluzionari, caduto nel 1978. Davanti ai tornelli del
nuovo parco Disney, nel cuore di Pudong, all’alba invece è già ressa e
nei negozi della “Disney Town” i busti del Grande Timoniere non sono
nemmeno in offerta: vanno a ruba le code della Sirenetta e i modellini
delle moto di Tron. Nella metropoli dove in Cina tutto comincia e tutto
finisce, lontano dall’ortodossia pechinese della Città Proibita,
Paperino seppellisce Mao Zedong, nella testa e pure nel cuore.
Anche
l’anniversario della Rivoluzione culturale, dopo mezzo secolo, viene
dimenticato come un relitto collettivamente imbarazzante. Il presidente
Xi Jinping celebra invece l’apertura dell’era di “Chinadisney”, la
super-potenza che ordina l’oblìo di se stessa e brevetta il successo
dell’autoritarismo di mercato. «C’è voluta un’ora — dice la pensionata
Liang Zhen di 85 anni — per salire quattro minuti sul veliero dei pirati
dei Caraibi. Ho raccolto riso tutta la vita: sì, ne valeva la pena». Il
nuovo parco Disney di Shanghai aprirà il 16 giugno ma è già un evento
globale. Dopo vent’anni di corteggiamento Usa e una serie di misteriosi
rinvii, è stato benedetto da Xi Jinping, che ha esaltato giostre e
attrazioni 4D come «l’esempio delle nuove relazioni culturali tra Cina e
Stati Uniti». Il via libera del “nuovo Mao” suggerisce una concessione
occidentale ed equivale a un ordine per un sesto della popolazione del
pianeta: «Divertitevi ma consumate». È una svolta giustificata
dall’investimento. Il “Regno Magico” di Pudong fa impallidire le copie
che in Asia l’hanno preceduto, a Tokyo e a Hong Kong. È costato 5,5
miliardi di dollari, occupa 400 ettari, darà lavoro a 10 mila persone,
promette di attirare 30 milioni di visitatori all’anno e di generare un
giro d’affari che sfiora i 4 miliardi di dollari annui. «I biglietti
delle prime due settimane sono esauriti — dice il responsabile delle
relazioni esterne, Murray King — quelli fino a settembre quasi. Il
problema non è attirare i clienti, ma garantire la loro sicurezza ».
Le
prove generali confermano l’allarme. La terza apertura-test finisce con
100 mila persone che tentano l’invasione del parco ancora chiuso. La
folla taglia varchi nei teli verdi che nascondono le montagne russe di
Indiana Jones e sfila davanti all’hotel “Toy Story”: all’interno i
camerieri in divisa bianca e blu ripetono i gesti di un istruttore
inglese, strappato a una scuola per maggiordomi. Le transenne scoppiano
di funzionari, uomini d’affari e poliziotti. «Dopo l’antipasto degli
hamburger — dice Kevin Chang, addetto alla zona delle “Stelle dei
desideri” — assaggiamo la vera America. Gli europei l’hanno chiamata
libertà: qui rappresenta una sfida più delicata del web». Per adesso
sembra risolversi nel trionfo dell’eccesso individualista, l’opposto
dell’anonimato socialista. Visitare in anticipo il primo parco Disney
della Cina continentale significa esibire il trofeo di chi è emerso
dalla miseria. Negli sconfinati parcheggi si fermano Rolls Royce,
Bentley e Ferrari. Dai nuovi Airbus A330 con i sedili a forma di
personaggi dei cartoon, scendono tycoon e modelle affetti da sindrome di
alta moda esagerata. Per gli esclusi da ricchezza e classe media, il
capolinea resta la nuova fermata della metropolitana, con gli animali
del “Libro della giungla” dipinti sui muri. «A me basta vedere la punta
della torre da 65 metri del castello — dice il maestro Wang Xingmiao,
partito di notte dall’Anhui — ma mio figlio un giorno ci entrerà».
Il
problema sono i prezzi: 67 euro il biglietto del fine settimana, 50 per
gli altri giorni. Se si aggiunge il prezzo del treno Maglev, il
ristorante, uno spettacolo e il minimo indispensabile di shopping, il
costo a coppia supera lo stipendio mensile. Entro tre ore dal Disney
Grand Theater, dove si prova il musical del “Re Leone”, vivono 330
milioni di persone. A meno di cinque ore scalpitano in 700 milioni. Il
Paese è già il primo mercato mondiale di turismo e tempo libero,
Shanghai promette di diventarne la capitale. È un’opportunità storica,
ma anche una necessità. L’Expo 2010, con 70 milioni di visitatori in sei
mesi, ha chiuso il trentennio d’oro della Cina. Quest’anno si annuncia
la crescita del Pil più lenta da un quarto di secolo. «Si è discusso a
lungo — dice Chen Zhao, docente alla Fudan University — sui rischi
culturali di una simile apertura ai modelli occidentali di spesa per lo
svago. I messaggi Disney aprono una breccia: con le ragioni del
business, hanno prevalso quelle della stabilità sociale, ormai
dipendente dalle opportunità di consumo urbano». Le ragioni sono tre:
alimentare la crescita interna, rendere inutili le fughe dei cinesi a
Tokyo e a Hong Kong, nascondere i fiaschi dei «parchi politici con
caratteristiche cinesi ». Il più imbarazzante è l’ultimo “Resort della
Rivoluzione”, a Wuhan. A un passo dal crack, è visitato gratis da
comitive di ex minatori in gita premio. «Non vogliamo profanare Mao —
dice lo studente Gu Zhiyi — ma è evidente che una reliquia bellica non
può competere con lo zainetto di Star Wars». «Qui la Cina impara il
business del millennio — dice Paul Candland, presidente di Disney Asia —
quello di un tempo libero non ideologico e del turismo-spettacolo. È un
fatto epocale: Pechino cinesizzerà presto il modello Usa, poi esporterà
il proprio. L’ha fatto con i jeans, sta per farlo con il bisogno di
felicità». I vecchi e gli adulti vogliono dimenticare la fame e
ritrovare un’infanzia presentabile. La nostalgia della rivoluzione è
finita, anche la vita individuale adotta il pacchetto-Disney. Dopo il 16
giugno sarà un’altra Cina, sempre meno diversa.