mercoledì 25 maggio 2016

Corriere 25.5.16
Eritrea prigione d'Africa
Chissà se avrà festeggiato il giorno dell’indipendenza il ragazzo con i tatuaggi sulle braccia, due scritte in inglese dipinte prima di scappare dal suo Paese-prigione: «Stato di diritto» e «Passa tutto».
di Michele Farina

Aveva 24 anni l’estate scorsa, l’ha fotografato alla stazione di Milano la reporter senegalese Ricci Shryock. Uno dei 40 mila eritrei che nel 2015 hanno raggiunto l’Italia attraversando il Sahara e il Mediterraneo, scappando da un Paese che secondo l’ultimo rapporto Onu è teatro di «gravi e diffuse violazioni dei diritti umani». Forse non c’è nazione al mondo che si «svuota» così velocemente: su 4,5 milioni di abitanti, il 9% sono fuggiti all’estero negli ultimi anni. Passano tutti. Dopo i siriani, gli eritrei sono il gruppo più numeroso che sbarca in Europa. L’anno scorso solo 475 su 40 mila hanno chiesto asilo da noi. Gli altri puntavano oltre le Alpi: Svizzera, Germania, Olanda. Italia no, forse perché è come se ci fossero cresciuti. Non c’è posto in Africa più italiano di Asmara, la capitale dell’ex colonia che ieri tra parate e fuochi d’artificio ha celebrato i 25 anni di vita.
Il nome Eritrea (dal greco, rossiccio) uscì nel 1890 dalla penna di Carlo Dossi, scrittore amico del presidente del Consiglio Francesco Crispi. Roma governò quello spicchio d’Africa per mezzo secolo. Asmara sfoggia ancora l’architettura modernista dei nostri anni Venti e Trenta. E poi il Cinema Impero, il Liceo Marconi, il cocktail Negroni, il culto del caffè macchiato, la bici come sport nazionale e unico mezzo di locomozione in un Paese-caserma dove il servizio militare obbligatorio (perenne dai 16 anni in su) viene pagato 30 euro al mese. La prima bici arrivò da Roma nel 1898, nel 1946 si corse il primo Giro dell’Eritrea (comunque riservato agli italiani). Oggi gli stranieri invitati dal presidente-padrone Isaias Afewerki fanno un viaggio nel tempo sulla ferrovia da Massaua ad Asmara, capolavoro della nostra ingegneria. Le funzionanti locomotive, costruite ottant’anni fa, sono un po’ l’equivalente eritreo delle vecchie decappottabili americane circolanti a Cuba.
L’America di Obama ha riallacciato i rapporti con l’isola delle vecchie Chevy e dei vetusti Castro. L’Eritrea del settantenne Afewerki rimane uno dei Paesi più chiusi e isolati del mondo. Internet è un lusso per l’1% della gente. I ciclisti eritrei corrono il Tour de France con una squadra del Sudafrica, e quando tornano sono accolti con adunate di piazza. Se tornano: l’anno scorso dieci giocatori di calcio in trasferta hanno chiesto asilo politico in Botswana.
Il servizio militare permanente, nella famigerata base di Sawa, lo Stato di diritto che è soltanto un tatuaggio ( rule of law ) sulle braccia di chi scappa oltre i cecchini, al di là delle montagne. Chi non ha soldi per i passatori resta sul lato sbagliato del Sahara, bloccato in Sudan o nei campi profughi dell’Etiopia, il grande spauracchio del regime eritreo. Venticinque anni dopo l’indipendenza di quella che fino al 1991 era una provincia di Addis Abeba, i vicini-nemici sono sulla carta ancora in guerra. Per Asmara è un motivo sufficiente per costringere sotto le armi (di fatto ai lavori forzati) due terzi dei giovani che finiscono la scuola. E quei duemila ragazzi e ragazze che scappano ogni mese tutto sommato non dispiacciono al regime. La grande paura di Afewerki è una rivolta interna. Chi scappa non si ribella. E una volta all’estero manda soldi alle famiglie rimaste a casa.
Qualcosa sta cambiando, a sentire i diplomatici italiani che sono un po’ l’orecchio del mondo in terra eritrea. Si coglie qualche apertura nel monolite del potere, più timida di quanto si vorrebbe. Qualche impresa tricolore, dal tessile al fotovoltaico, porta lavoro (e valuta allo Stato). In un mondo di crisi umanitarie concorrenti, la fortezza Eritrea con le sue italiche facciate moderniste non fa l’effetto delle macerie dove si combattono le guerre. Ma per commuoverci forse bastano tre parole, rule of law , tatuate sul braccio di un ragazzo che fugge.