mercoledì 25 maggio 2016

La Stampa 25.5.16
De Felice vent’anni dopo
Senza la Nazione non può esserci Costituzione
Lo storico del fascismo tra grandi meriti, limiti e oscillazioni di giudizio
Deplorava che la Resistenza non avesse ricreato il valore-mito della patria
di Gian Enrico Rusconi

La Resistenza come guerra civile, l’attendismo di gran parte degli italiani, la zona grigia, il lungo consenso popolare al fascismo, la morte della patria. Sono tutte espressioni imputate o associate allo storico Renzo De Felice. A vent’anni dalla sua scomparsa la storiografia professionale seria ne riconosce i grandi meriti e i limiti. Ma a livello di narrazione storica spicciola, da una parte si continua a evocare in toni negativi un non meglio specificato «revisionismo defeliciano»; dall’altra parte si festeggia una presunta definitiva sconfitta del dogmatismo storico-ideologico della «vulgata di sinistra» (per usare l’irritante e fortunata espressione coniata dallo stesso De Felice).
Cominciamo dal «revisionismo nella storia italiana». Norberto Bobbio, in un piccolo ma prezioso libro di confronto con lo stesso De Felice, Italiani, amici nemici (Donzelli 1996), distingueva «il compito che ha lo storico di rivedere continuamente le interpretazioni precedenti, via via che vengono alla luce fatti nuovi, dal “revisionismo” che è termine con una forte connotazione negativa con cui si designano oggi alcuni storici che negano ostinatamente fatti accertati». In questa prospettiva approvava l’affermazione di De Felice che «per sua natura lo storico non può essere che revisionista, dato che il suo lavoro prende le mosse da ciò che è stato acquisito dai suoi predecessori e tende ad approfondire correggere, chiarire, la loro ricostruzione dei fatti».
Erano e sono affermazioni condivisibili, ma che rischiano di essere astratte e nominalistiche. In particolare la contrapposizione tra storiografia intesa come ricerca e analisi dei fatti, come habitus scientifico, e storiografia come costruzione ideologica e narrazione mitica è assai fragile. Lo stesso De Felice, presentato come il campione della «storiografia dei fatti», in un passaggio del suo polemico libro Rosso e nero (Baldini & Castoldi 1995), deplora che la Resistenza non sia riuscita a ricreare positivamente il valore-mito della nazione. Anzi precisa: «non si vuole a colpi di verità storiche distruggere il valore mitopoietico della Resistenza o dichiarare la sua inutilità insieme al regime politico a cui ha dato origine». Se è così, allora il vero contrasto non è tra l’habitus scientifico e la narrazione mitopoietica, ma su quale sia la vera realtà storica.
Per De Felice il problema storico cruciale è quello della nazione italiana che si dissolve con l’8 settembre 1943. E quindi in prospettiva «l’Italia ha bisogno di ricuperare un senso di solidarietà legato all’idea nazionale. È questo fattore culturale che può tenerci uniti». Per Bobbio, invece, «la vera tragedia nazionale non è stato l’8 settembre 1943 ma il 10 giugno 1940: le aggressioni alla Francia, alla Grecia, all’Inghilterra, una guerra che fu vissuta da tutti, meno che dai fascisti, come una maledizione». E quindi la rinascita dell’Italia avviene soltanto grazie alla Resistenza, grazie alla democrazia quale è definita dalla Costituzione. Il nesso negativo tra guerra fascista, crisi nazionale, guerra civile si rovescia positivamente nel nesso tra Resistenza e Costituzione.
La zona grigia
Diversa è l’ottica defeliciana: «ridurre gli avvenimenti del 1943-45 alla contrapposizione antifascismo/fascismo e alla lotta armata tra Resistenza e Repubblica sociale italiana non è in sede storica sufficiente». «La vera lacuna è costituita dall’assenza di un quadro di riferimento generale nel quale trovi posto anche la condizione umana di quegli anni con i suoi molteplici stati d’animo, problemi morali e di vita materiale, speranze delusioni ecc.». Qui si crea «la grande zona grigia composta da coloro che si sforzavano di sopravvivere tra gli uni e gli altri, per dirla con Mussolini con “rassegnato fatalismo”, e che è impossibile qualificare socialmente perché era espressa da tutti indistintamente i ceti, compresi, checché sia stato spesso sostenuto, quelli operai» (così leggiamo in Mussolini l’alleato. La guerra civile 1943-45, Einaudi 1997) .
Da anni ormai la «zona grigia» e l’«attendismo» sono diventati oggetto della letteratura storiografica con l’offerta di analisi e documentazioni che vanno ben oltre le osservazioni defeliciane confermandole, criticandole, completandole. «La labilità dei confini, la doppiezza consapevole, la promiscuità di chi da antifascista, o da non immedesimato nel fascismo, continui a vivere in Italia - senza le liberatorie rotture nette del carcere, del confino o dell’esilio - costituiscono il terreno di coltura, la cifra di un indeterminato e forse anche maggioritario numero di italiani fra le due guerre, con o senza tessera, in una società composita, nel grado di assuefazione, di differenti cerchie e microclimi».
Così scrive Mario Isnenghi nell’introduzione all’edizione definitiva dei Diari di Piero Calamadrei, uno degli osservatori più significativi di questa fase ed esponente dell’antifascismo interno, «angosciato, ancor più che dalla propria impotenza, di essere storicamente condannato alla sconfitta» (sono parole del figlio Franco). Ma, dopo la liberazione di Firenze, Calamandrei si impegnerà generosamente nella nuova vita civile e politica (nel Partito d’Azione), dando un grandissimo contributo alla nascita e al rafforzamento della democrazia, nella Costituente e oltre. De Felice nel suo lavoro presta attenzione anche a Calamandrei, negli anni dell’attesa della liberazione, ma non ne segue più l’itinerario che lo porterà all’azione politica, in particolare nell’elaborazione della Costituzione.
La democrazia bloccata
È uno strano strabismo quello di De Felice di fronte alle terribili difficoltà della nuova Italia e della nuova classe politica. Ne vede soprattutto i difetti e i limiti. Ha gli occhi fissati sulla nazione moralmente e politicamente lacerata che la Resistenza - a suo avviso - non sa far rinascere. Per lui l’esito del conflitto tra Resistenza e Rsi (l’esito della guerra civile) non è risolutivo del trauma che la popolazione avrebbe subito nel suo insieme.
Ma allora «a cosa serve la Resistenza?», si chiede in uno dei paragrafi centrali di Rosso e nero. Ecco la risposta: «La Resistenza è un momento fondamentale. Ma, detto che è un momento fondamentale, bisogna anche dire che si esaurisce rapidamente. Ci lascia la nuova Italia della Costituente, in gran parte frutto dei compromessi dell’incontro storico tra le forze politiche realizzato nel Cln». Però poi, con una tipica oscillazione di giudizio, fa una importante precisazione positiva: «La Costituzione non ha in sé i germi di quella democrazia bloccata con le sue pratiche lottizzatrici e spartitorie che ha ingessato la vita politica italiana degli ultimi 50 anni. Non sono d’accordo con chi vuole individuare nella politica dei costituenti gli esiti degenerati dell’etica politica della democrazia di oggi. Non credo che Tangentopoli sia un sottoprodotto degradato del consociativismo delle origini. Se c’è colpa, non è della Costituzione. È dello scarso patriottismo dei partiti italiani, da allora a oggi».
Uno spunto trascurato
Questo generico riferimento allo «scarso patriottismo degli italiani» mi sembra una spiegazione troppo debole davanti alla complessa problematica sollevata da tante pagine della sua opera e dalla menzione di altre personalità. De Felice ad esempio mostra molto apprezzamento verso Alfredo Pizzoni, presidente del ClnaI sino al 27 aprile 1945, o verso Alcide De Gasperi - personaggi che erano contemporaneamente fermi antifascisti e convinti patrioti e che hanno contribuito positivamente a costruire la Repubblica democratica.
In questo contesto De Felice fa una interessante considerazione in merito al rapporto tra nazione e Costituzione - quello che oggi chiamiamo «patriottismo costituzionale». Scrive: «il patriottismo della Nazione e il patriottismo della Costituzione per me non sono in contraddizione. Solo che senza la Nazione non può esserci Costituzione. Vale a dire, valori che danno corpo al patriottismo della Costituzione sono dei valori espressi dalla storia, dalla cultura, dalle vicende di un determinato paese, non da una astrazione giuridica. E infatti, quando si parla in positivo o in negativo della “Costituzione nata dalla Resistenza”, ci si riferisce a un momento ben preciso della storia italiana, a qualcosa che va bene solo per gli italiani, non per i francesi o gli svedesi. Non ho mai creduto alla possibilità illuministica di un esperimento costituzionale, giacché ogni patriottismo deve avere la sua patria di riferimento».
Queste proposizioni sono quelle che più si avvicinano positivamente alla prospettiva di una educazione politica democratica che comprenda anche il patriottismo costituzionale. Dallo storico Renzo De Felice di vent’anni fa non ci si poteva aspettare di più. Il guaio è che di questo spunto, meritevole di ulteriore sviluppo critico, oggi è rimasto ben poco.