Repubblica 23.5.16
Lo strano Paese che è tornato al ’46
di Guido Crainz
SI
È colti da un forte senso di straniamento di fronte ad alcuni toni e
accenti, sia pur marginali, del dibattito di questi giorni. Marginali,
certo, ma da rimuovere al più presto dal percorso che attende il Paese
sino al referendum sulle riforme costituzionali. Com’è possibile
contendere su come voteranno, o come voterebbero, il prossimo ottobre
coloro che hanno combattuto il fascismo e il nazismo più di settant’anni
fa, in una Resistenza ampiamente plurale? È possibile dimenticare che
proprio questa pluralità fu la forza di quel momento straordinario della
nostra storia? Parteciparono anche i monarchici a quella stagione, e vi
contribuirono in più forme anche molti che non voteranno poi per la
Repubblica il 2 giugno del 1946: eppure l’Anpi, la principale
Associazione nata da quella esperienza e impegnata a rinnovarne il
messaggio, ha fatto una scelta netta e vincolante per il No nel
referendum di ottobre.
Un referendum che riguarda — occorre
ricordarlo — quella parte della Costituzione che attiene al
funzionamento dello Stato, non ai principi fondativi. Forse la
discussione doveva rimanere all’interno di quella Associazione ma non
c’è da stupirsi troppo se sono fioccate le risposte polemiche di chi in
quella riforma crede, come molti senatori del Pd. E certo il ministro
Boschi poteva evitare di interpretare la volontà di “molti partigiani,
quelli veri, quelli che hanno combattuto la Resistenza, non le
generazioni successive”: non ne avvertivamo davvero il bisogno.
Sul
versante opposto Giorgia Meloni — candidata a sindaco di Roma per il
centrodestra (per l’ala di destra del centrodestra, a voler essere
precisi) — si impegna a dedicare una strada della Capitale a Giorgio
Almirante in caso di vittoria: e costringe la comunità ebraica a
ricordare il ruolo che egli svolse nel giornale-guida del razzismo
italiano, “La difesa della razza”. Della esternazione elettorale di
Giorgia Meloni non sarà lieto neppure Matteo Salvini, probabilmente: e
figuriamoci il vecchio Bossi, che quando litigava con Berlusconi gli
rimproverava lo “sdoganamento” degli eredi del fascismo (cosa pensi su
questo Alfio Marchini non si sa, è impegnato ad evocare il Mussolini
urbanista e alla titolazione delle strade non è ancora arrivato). Se
questo è il clima possiamo attenderci di tutto: magari qualcuno domani
trarrà dagli archivi degli anni settanta le denunce contro il
“fucilatore Almirante”, con annessi bandi della Repubblica di Salò.
Siamo un Paese davvero strano: troppo spesso immemore della propria
storia e troppo spesso pronto a utilizzarla come una clava (e quasi
sempre fuori luogo).
Per favore, ritorniamo all’impegno centrale
che abbiamo di fronte: decidere se settant’anni dopo vogliamo o no
riscrivere la seconda parte della Costituzione guardando al futuro.
Riflettendo sulla crisi della nostra democrazia e al tempo stesso sui
rischi possibili quando si mette mano a modifiche pur invocate da
decenni. Quando si affrontano questioni segnalate già nel dibattito alla
Costituente, non occorre neppur ricordare il Berlinguer del 1981 (ma
magari neanche dimenticarlo, se appena è possibile). I nodi veri sono
legati al difficile e incerto operare di meccanismi istituzionali
inediti, o al nesso fra la riforma costituzionale e la legge elettorale
(nodi meglio comprensibili, com’è ovvio, se si evitano le grida sulla
Costituzione stracciata). Non pochi interventi di qualità stanno
realmente andando in questa direzione, pur sostenendo tesi differenti:
talora accentuando la contrapposizione e talora invece lavorando per
renderla meno aspra, come osservava ieri su queste pagine Andrea
Manzella. È l’unica strada possibile, e anche queste polemiche fuori
stagione ci aiutano a ricordarlo. Ci segnalano l’urgenza di recuperare
uno sguardo sul futuro e un senso comune di appartenenza. Uno “spirito
costituente”, in altri termini: oggi il compito può apparire quasi
impossibile, come ci ha ricordato Michele Serra con la sua amara (e
purtroppo fondata) ironia, ma va perseguito con ogni forza.