domenica 22 maggio 2016

Repubblica 22.5.16
L’uomo che riscrive la storia col Dna
“Gli europei e i nativi americani? Sono parenti L’ho scoperto studiando un ciuffo di capelli” Lo scienziato danese Eske Willerslev racconta i suoi viaggi nelle grandi migrazioni dell’umanità

DA BAMBINO ESKE WILLERSLEV NON VEDEVA L’ORA che arrivasse per lui il momento di andarsene da Gentofte, il piccolo comune in Danimarca nel quale viveva: non appena fosse cresciuto abbastanza, sarebbe partito di gran carriera alla volta delle incontaminate terre artiche. Il suo gemello, Rane, condivideva la sua ossessione: da bambini in vacanza si addentravano nei boschi per imparare le tecniche di sopravvivenza. Un giorno, i gemelli Willerslev decisero che la loro prima esplorazione sarebbe stata in Siberia: lì avrebbero preso contatti con il misterioso popolo dei jukaghiri, che si diceva vivessero esclusivamente di alci siberiane. Quando compirono diciott’anni, i due gemelli onorarono la loro promessa e si trovarono a pagaiare su una canoa lungo i remoti fiumi siberiani, racconta il dottor Willerslev che oggi ha quarantaquattro anni. Trascorse quattro anni in Siberia a dare la caccia alle alci, a percorrere le distese di tundra desertica, a conoscere i jukaghiri e altri popoli che abitano in quella regione. Quell’esperienza gli lasciò enormi interrogativi su come gli esseri umani si siano disseminati nel pianeta. Ora può finalmente darsi delle risposte.
Willerslev dirige il Centro di geo-genetica dell’università di Copenaghen e studia antichi Dna per ricostruire gli ultimi cinquantamila anni della storia umana. Le sue recenti scoperte hanno enormemente arricchito la nostra comprensione della preistoria, gettando nuova luce sullo sviluppo umano con prove che non si possono rintracciare in frammenti di terraglia o negli studi delle culture viventi. Ha guidato la prima sequenziazione di successo di un antico genoma umano, quello di un ominide groenlandese vissuto quattromila anni fa. La sua ricerca su uno scheletro siberiano risalente a ben ventiquattromila anni fa ha rivelato un insospettato collegamento tra gli europei e i nativi americani. L’impresa scientifica che ha contribuito a realizzare ormai è trasversale e interessa vari ambiti culturali. Nel giugno scorso insieme ai suoi colleghi ha pubblicato l’intero genoma di uno scheletro di ottomilacinquecento anni fa trovato nello stato di Washington e noto col nome di “Uomo di Kennewick”, o “l’Antico”, giungendo alla conclusione che l’Uomo di Kennewick era imparentato con i nativi americani di oggi.
Fu durante il loro terzo giorno di viaggio in Siberia, nel 1993, che i fratelli Willerslev incontrarono i jukaghiri. Un anziano, dal corpo ricoperto di cicatrici per aver dato la caccia agli orsi in gioventù, li accompagnò in uno dei loro villaggi. Quell’incontro era ancora vivo nella sua mente quando, tornato in Danimarca, Willerslev apprese che alcuni scienziati stavano estraendo il Dna da mummie fossili, tecnica che avrebbe potuto aiutare a spiegare la storia di un popolo come quello dei jukaghiri. In Danimarca, però, nessuno era in grado di fare quel tipo di ricerche, così Willerslev pensò di ricorrere a un piano B: avrebbero potuto svolgere ricerche nei campioni di ghiaccio antico che i climatologi dell’università di Copenaghen avevano riportato dalla Groenlandia. Individuarono così in un pezzo risalente a quattromila anni fa il Dna di cinquantasette specie di funghi, piante, alghe e altri organismi. Dopo aver pubblicato nel 1999 il suo studio sul campione di ghiaccio, Willerslev inviò una richiesta agli scienziati russi e dalla Siberia gli spedirono alcuni pezzi di permafrost delle stesse dimensioni dei cubetti di zucchero per le sue ricerche sul Dna preistorico. Già nel primo cubetto esaminato, trovarono un vero e proprio filone d’oro genetico. «Fu incredibile: conteneva davvero di tutto, tracce genetiche di mammut lanosi, renne, lemmini, bisonti».
Fin dall’inizio, per Willerslev una delle priorità assolute del Centro doveva però essere la ricerca di Dna umano antico. Negli anni Ottanta, i ricercatori dell’università avevano trovato in Groenlandia un ammasso di peli risalente a quattromila anni fa che era stato archiviato e dimenticato in uno scantinato. Willerslev ne estrasse del Dna e usò tecniche efficaci e nuove per ricostruire il genoma del groenlandese. Quella fu la prima volta che gli scienziati recuperarono un genoma umano antico completo: i peli risultarono appartenere a un ominide, con sangue di tipo A positivo, e con una predisposizione genetica alla calvizie. Cosa più interessante di tutte, l’antico groenlandese non era un antenato diretto degli inuit: apparteneva a un gruppo diverso, denominato “paleo-eschimese”. Willerslev e i suoi colleghi giunsero così alla conclusione che i paleo-eschimesi dovevano essere emigrati dalla Siberia circa cinquemilacinquecento anni fa e dovevano aver resistito tra Canada e Groenlandia fino a estinguersi. I paleo-eschimesi non sono dunque gli antenati degli inuit: li hanno soltanto preceduti e ne sono stati sostituiti.
Da allora Willerslev ha pubblicato altri studi che hanno completamente modificato il nostro modo di pensare. La specie umana si evolvette sì in Africa circa ducentomila anni fa. Ma gli scienziati stanno ancora cercando di appurare con quali modalità gli esseri umani popolarono poi tutti gli altri continenti. Da molte testimonianze pare che i nativi americani abbiano origini che risalgono a una popolazione proveniente dall’Asia quindicimila anni fa. Alla ricerca di tracce per individuare quella popolazione, Willerslev ha studiato alcune ossa risalenti a ventiquattromila anni fa, trovate nel villaggio di Mal’ta in Siberia orientale. In uno studio preliminare, Maanasa Raghavan, ricercatrice presso il Centro di genetica, aveva scoperto in quei resti alcune tracce di Dna, solo che i geni sembravano appartenere a un nordico europeo, non a un asiatico orientale. «Ho interrotto quella ricerca pensando che il reperto fosse stato contaminato», ha detto il dottor Willerslev. Dopo che quest’ultimo e i suoi colleghi hanno messo a punto metodi più potenti e raffinati per analizzare il Dna, Raghavan con i suoi collaboratori è ritornata a studiare il Dna trovato a Mal’ta, scoprendo che non era contaminato. Si trattava semplicemente di un genoma diverso da qualsiasi cosa si aspettassero: alcune parti assomigliavano molto da vicino al Dna di antichi europei, ma la maggior parte presentava rassomiglianze con quello dei nativi americani. Sembra che il ragazzo di Mal’ta appartenesse a un’antica popolazione sparpagliatasi in tutta l’Asia ventiquattromila anni fa, poi entrata in contatto con gli asiatici orientali. Dall’unione delle due popolazioni nacque una discendenza. Ebbene: i nativi americani sono i discendenti diretti di quei bambini. La popolazione di Mal’ta non presenta legami di parentela con gli asiatici che vivono oggi in quella regione, ma prima di scomparire passò parte del suo Dna agli europei. Alcune ricerche hanno poi mostrato la strada percorsa dai geni dall’Asia all’Europa. In uno studio pubblicato nel giugno scorso, è sta- to individuato un Dna simile a quello di Mal’ta in una popolazione nomade dell’Età del bronzo denominata yamnaya, vissuta tra i 4300 e i 5500 anni fa in quella che è oggi la Russia sud-occidentale e che si diffuse poi in Europa, dove aggiunse il suo genoma al mix di geni lì preesistente.
Nel 2011, il dottor Willerslev e i suoi colleghi hanno anche pubblicato il primo genoma di un aborigeno australiano e quella ricerca ha dato loro nuovi indizi sulla nostra storia. Le prove archeologiche attestano che gli esseri umani arrivarono in Australia circa cinquantamila anni fa. Gli scienziati a lungo si sono chiesti se gli aborigeni oggi presenti sul continente siano i discendenti di quei primi colonizzatori, o siano arrivati in seguito. Willerslev ha notato una grossa lacuna negli studi precedenti: molti degli aborigeni di oggi hanno infatti qualche parentela con gli europei. E così ha deciso di cercare il genoma puro degli aborigeni, senza tener conto del Dna europeo. Nel 2010 trovò all’università di Cambridge un campione di peli raccolto in Australia negli anni Venti e con i suoi colleghi ne ricavò il Dna e ricostruì il genoma del proprietario. Quest’analisi ha rivelato che gli antenati degli aborigeni australiani si staccarono da altri popoli non africani circa settantamila anni fa, il che conferma l’idea che i primi a mettere piede in Australia furono gli antenati degli odierni aborigeni.
Le sue esperienze in Australia hanno anche modificato il modo col quale Wellerslev e i suoi colleghi studiano il Dna delle popolazioni indigene. Venuto a sapere nel 2011 che in un ranch in Montana di proprietà di Melvyn e Helen Anzick nel 1968 era stato trovato lo scheletro di un bambino vissuto 12.700 anni fa, Willerslev contattò la famiglia chiedendo il permesso di cercare le ossa del cosiddetto “Bambino di Anzick” e riuscendo poi ricavarne il Dna. Sulla base delle loro ricerche in Groenlandia, avevano ipotizzato che quel bambino fosse appartenuto a una popolazione estinta, senza alcun legame con i nativi americani viventi. Invece il genoma ha dimostrato tutt’altro: il bambino era strettamente imparentato ai nativi americani di oggi.
© 2016 The New York Times ( Traduzione di Anna Bissanti)
LO STUDIOSO ESKE WILLERSLEV, 44 ANNI, DIRIGE IL CENTRO DI GEO-GENETICA DELL’UNIVERSITÀ DI COPENAGHEN