Repubblica 22.5.16
Aldo Manuzio
Lo Steve Jobs rinascimentale tra stampa e rivoluzione
di Dario Pappalardo
VENEZIA
Nell’ultima sala, i personaggi ritratti nel primo Cinquecento da
Tiziano, Palma il Vecchio e Parmigianino, per la prima volta hanno in
mano un libro. Mezzo millennio fa era l’iPhone di oggi, un oggetto
sofisticato e semplice insieme, appena entrato nell’uso quotidiano.
Laura da Pola, ricca gentildonna “fotografata” da Lorenzo Lotto, tiene
il suo tascabile con la sinistra. E, a guardarlo, sembra davvero uno
smartphone. La rivoluzione è compiuta: il libro, prima ingombrante
manufatto per specialisti alla Guglielmo da Baskerville, entra nelle
case. O almeno in quelle di chi sa leggere e ha denaro sufficiente. I
pittori registrano il cambiamento. Aristocratici e dame non impugnano
più solo spade e ventagli. Tutto accade a Venezia, nell’arco di
vent’anni, tra i Novanta del Quattrocento e il 1515, quando muore chi ha
traghettato la cultura della Serenissima dall’età gotica al
Rinascimento. Cambiando il mezzo e il messaggio. Dal manoscritto alla
stampa. Lui è Aldo Manuzio (1449-1515). E la mostra alle Gallerie
dell’Accademia di Venezia (a cura di Guido Beltramini, Davide
Gasparotto, Giulio Manieri Elia, fino al 19 giugno, catalogo Marsilio)
lo celebra, nell’apparato didattico, azzardando il paragone con Steve
Jobs. Perché entrambi sono uomini chiave che si muovono in un’epoca di
passaggio e intuiscono, prima di altri, l’importanza di una nuova
tecnologia. Sanno come adoperarla, rendendola sexy e appetibile per un
pubblico ampio.
Manuzio mette la stampa al servizio di un sapere
che non sarà più appannaggio di un’élite di studiosi. Fonda il nuovo,
facendo tesoro del passato. Costruisce il gusto per l’oggetto libro e,
al tempo stesso, apre un mercato editoriale che non era mai esistito.
Venezia, città global prima di altre, crocevia di civiltà, diventa la
nuova capitale dell’umanesimo, dopo Firenze. La mostra all’Accademia dà
conto del dialogo tra la rivoluzione di Aldo e le arti figurative. «È
una mostra sui doni del libro, sulle forme d’arte generate dai libri»,
dice il curatore Beltramini. Il percorso si dipana nei nuovi, minimali
spazi espositivi delle Gallerie veneziane, ora dirette da Paola Marini,
con una successione di “scene”, dove pittura e scultura sono portate
come prove di una relazione costante con i nuovi testi a stampa.
Il
percorso è aperto da una statua: una Cleopatra rinascimentale, che è in
realtà una musa ellenistica reintegrata nella bottega di Tullio
Lombardo. All’inizio del Cinquecento, al frammento ritrovato è aggiunto
il braccio destro mancante, la corona, un pilastrino di appoggio. Il
passato viene riparato e reinterpretato. È lo stesso procedimento che
sul piano dei testi adotta Manuzio. L’oscuro precettore nato nel Lazio
arriva in Laguna a quarant’anni. Qui trova un ambiente che sembra lo
stia aspettando: «Accadde come nei grandi romanzi d’amore: erano fatti
l’uno per l’altra», scrive Cesare G. De Michelis nel saggio in catalogo.
L’impegno civile della Serenissima si coniuga con quello intellettuale.
Ci sono umanisti come Pietro Bembo ed Ermolao Barbaro (ritratto da
Carpaccio nella tela del ciclo di Sant’Orsola qui esposta). C’è il
tipografo Andrea Torresano con cui Manuzio presto si associa e progetta
un piano editoriale preciso: vuole rendere disponibili, finalmente
stampati, i classici greci e latini nella lingua originale. Il primo
libro “firmato” da Aldo è una grammatica greca. Tra il novembre 1495 e
il giugno 1498, Manuzio stampa l’opera completa di Aristotele: 1792
pagine in tutto. Sceglie il corsivo per la sua leggibilità. Piega e
ripiega il foglio di stampa in quarto, in ottavo, in sedicesimo: crea il
tascabile e il super tascabile con la consapevolezza di un designer.
Nel 1501 inventa un brand, un logo che rende immediatamente
riconoscibili le sue edizioni: un delfino attorcigliato all’ancora, che
verrà citato da Melville in Moby Dick. Sarà l’amico Erasmo da Rotterdam –
un libro da lui comprato e firmato è in mostra – a raccontarne
l’origine: una moneta dell’imperatore Tito regalata ad Aldo da Bembo.
Pinguini e struzzi che identificano le case editrici di oggi nascono da
qui. La reperibilità dei classici influenza gli artisti: si diffondono
motivi iconografici mai visti prima. Le descrizioni delle pitture
perdute di Atene ispirano Dürer, Jacopo de’Barbari, Lotto, tutti
presenti in mostra. E il culto della campagna celebrato dagli antichi si
riflette nei grandi della pittura veneta. Il paesaggio diventa per la
prima volta protagonista: La Tempesta di Giorgione, che fa parte del
percorso espositivo, è figlia di questo clima.
Ma nel catalogo di
Manuzio non ci sono soltanto gli antichi: appare Dante; celebri
diventano i petrarchini: le versioni mignon dell’autore del Canzoniere. E
poi i bestseller contemporanei: Gli Asolani di Pietro Bembo, L’Arcadia
di Jacopo Sannazaro. Ma soprattutto l’Hypnerotomachia Poliphili di
Francesco Colonna: in mostra, quello che è considerato il libro più
bello del Rinascimento, viene riprodotto integralmente con tutte le sue
illustrazioni. Molte dal significato ancora misterioso e senza autori
certi. È l’opera a cui Aldo dovrà per sempre la sua fama. In fondo al
volume si limita a scrivere: «A Venezia, nel mese di dicembre 1499,
nella bottega di Aldo Manuzio, realizzato con grande cura».