Repubblica 22.5.16
I tabù del mondo
È il nostro cuore il primo straniero che incontriamo
Alcune
tribù preferivano addossare la colpa della morte di un bambino alla
potenza stregonesca dei confinanti piuttosto che a cause naturali
Come
ha raccontato Jean-Luc Nancy, il trapianto cardiaco cui è stato
sottoposto si è rivelato una forma di accettazione dell’altro,
successiva all’abbassamento delle proprie difese immunitarie e in
qualche modo della propria identità. Per continuare a vivere, dunque
sono necessari contaminazione e meticciato
di Massimo Recalcati
È
un’evidenza assoluta: se il cuore si ferma la vita muore. Ma il cuore
che ciascuno di noi porta al centro del proprio petto e dal quale
dipende la sua vita, batte senza che la nostra ragione o la nostra
volontà possano comandarne il ritmo. È un paradosso elementare che si
iscrive al centro della vita: il cuore che la mantiene viva, è il nostro
cuore, ma è, al tempo stesso, una pompa che agisce a prescindere da
ogni istanza di controllo. La vita del cuore trascende la nostra vita
pur essendo al centro della nostra vita. Non dovremmo allora vedere nel
carattere autonomo di questo battito un primo volto — il più prossimo —
dello straniero? La vita del cuore non è un’esperienza perturbante, come
direbbe Freud, dove la familiarità più intima e l’estranietà più
radicale si intersecano? La potenza autonoma della vita, la sua
eccedenza, non è forse sempre in parte straniera a se stessa?
Prendiamo
una vignetta clinica a titolo esemplificativo: un paziente ha la sua
prima crisi di panico quando si sofferma ad ascoltare il battito del
proprio cuore. Steso nel suo letto ad un certo punto lo coglie il rumore
insistente del proprio cuore. È qualcosa al quale solitamente nessuno
presta attenzione. La condizione perché la vita sia “naturalmente” viva
è, in fondo, sempre quella di dimenticarsi parzialmente di se stessa. È
la definizione che il celebre chirurgo René Leriche dava della salute
come «il silenzio degli organi». Per questo paziente, invece, il battito
del suo cuore interrompe il silenzio facendosi sentire. Egli resta
colpito dal constatare che è dalla regolarità sfuggente di questo
battito che la sua vita dipende totalmente. Si tratta per lui di un
pensiero sufficiente ad alterare il ritmo del suo cuore che inizia ad
assumere un andamento sempre più irregolare. A quel punto l’uomo cade in
preda all’angoscia: si accorge di essere in balìa di qualcosa che non
può governare in nessuna maniera. Panico, perdita di controllo, tremore;
il suo cuore accelera i battiti e con essi aumenta la sensazione di
sentirsi invaso dalla vita al punto che potrebbe morirne….
Invitato ad intervenire sulla rivista Dedale in un numero monografico del 1999 dedicato a
La
venuta dello straniero, il filosofo Jean Luc-Nancy evita di parlare
direttamente sul tema del razzismo e, prendendo tutti in contropiede,
racconta l’esperienza vissuta del trapianto del proprio cuore (
L’intruso, Cronopio 2000). Il verdetto della scienza medica era stato
inappellabile: solo un nuovo cuore gli avrebbe permesso di continuare a
vivere poiché il vecchio aveva esaurito la sua carica. Una sostituzione
si rendeva clinicamente necessaria: il cuore di un altro, di uno
straniero (di uno zingaro, di un ebreo, di una polacca, di una nera, di
un’omosessuale) doveva subentrare al posto del cuore del filosofo. Ma
per rendere possibile un trapianto la medicina sa bene come sia
necessario abbassare le difese immunitarie prevenendo eventuali crisi di
rigetto. Per consentire alla vita di continuare a vivere — è questa la
lezione che possiamo trarre dall’intenso racconto autobiografico di
Jean-Luc Nancy — è necessario ridurre l’identità sostanziale di quella
vita; è necessario il meticciato, la transizione, la porosità dei
confini, la contaminazione con lo straniero. Senza questa apertura,
infatti, la vita morirebbe. Lo straniero, il cuore dell’Altro, è
l’intruso che non porta la distruzione, ma la possibilità di un
rinnovamento della vita. A condizione però che la vita sappia rendere
più flessibili i propri confini identitari. Non è questa una lezione
etica e politica profonda? Se la vita umana necessita di avere dei
confini determinati (la vita senza confini è la vita disperata della
schizofrenia), l’irrigidimento del confine, la sua ipertrofia
identitaria, rischia di fare morire la vita stessa.
Il tabù dello
straniero vorrebbe proteggerci dall’incontro spaesante con l’eccesso
della vita che ci invade. Lo sanno bene i bambini che temono l’uomo nero
o gli animali più diversi (zoofobie). In questo modo essi trasferiscono
all’esterno l’eccesso della vita che li abita e che non sanno
governare. La paranoia dell’adulto radicalizza questo tabù originario:
meglio proiettare sul nemico, sull’infedele, sul migrante,
sull’omosessuale l’eccedenza della vita di cui abbiamo terrore. Non c’è
nulla, infatti, come ricorda Lacan, che faccia più paura della
«sensazione della vita». Il tabù dello straniero incanala questa paura
esteriorizzandola. Lo ricordava anche Franco Fornari quando, ispirandosi
a studi di antropologia, riportava in La psicoanalisi della guerra le
ragioni del conflitto armato tra tribù vicine alla difficoltà di
simbolizzare il trauma atroce della morte prematura di un bambino.
Anziché incamminarsi verso il lutto difficile di questo evento la tribù
preferiva attribuire paranoicamente al sortilegio dello stregone della
tribù confinante la causa del decesso. In questo modo un nemico reale
sostituiva l’ingovernabilità della vita consentendo di trasformare
l’angoscia diffusa in una aggressività localizzata e rivolta
all’esterno. Il nemico che viene da fuori è infatti sempre meno
minaccioso di quello che può sorprenderci dall’interno di noi stessi. Lo
straniero, infatti, non è altro se non la vita interna alla vita, la
sua spinta inquietante ed eccedente; il suo battito che non contempla
padroni.