Repubblica 21.5.16
Siamo davvero in grado di autodeterminarci?
Secondo il Grande Inquisitore di Dostoevskij cerchiamo un potere a cui consegnarci
Un uomo solo è schiavo due amici sono liberi
di Vito Mancuso
Siamo
davvero in grado di autodeterminarci? Oppure come sembrano suggerire i
dati dello neuroscienze si tratta di un’illusione? Tra letteratura,
filosofia e religione, l’idea controversa della salvezza umana
Possiamo
iniziare a chiederci quanto nella storia si sia effettivamente data la
presenza allo stato puro del binomio dittatura- schiavitù e del suo
opposto democrazia-libertà: forse né gli schiavi dell’antica Grecia e
dell’antica Roma erano così privi di libertà come in prima battuta si
ritiene (per rendersene conto basta pensare alla figura del servus
callidus nelle commedie di Menandro e di Plauto), e forse noi cittadini
delle democrazie contemporanee non siamo esenti da forme di servitù a
volte così pesanti da trasformarsi in auten–
tiche schiavitù. La
questione del grado di libertà della nostra esistenza diviene poi ancora
più complessa se si prendono in esame i diversi livelli di cui si
compone la vita, e oltre al livello economico- sociale e a quello
politico si considera quell’intricato labirinto che chiamiamo coscienza
individuale. Ognuno di noi rispetto a se stesso (rispetto al codice
genetico, alle determinazioni familiari e ambientali, alle esigenze
corporee, al carattere, alla psiche, all’inconscio…) è libero o schiavo?
Siamo veramente dotati di libero arbitrio oppure si tratta di
un’illusione, come sembrano suggerire i dati delle neuroscienze e della
microbiologia? Aveva ragione Erasmo da Rotterdam che contro Lutero
scrisse nel 1524 il De libero arbitrio, oppure aveva ragione Lutero che a
Erasmo replicò nel 1525 con il De servo arbitrio?
Né si può
evitare un’altra domanda: gli esseri umani vogliono davvero esseri
liberi? Oppure in realtà non cercano altro che una grande potenza a cui
consegnare tutti insieme questa scomoda e inquietante condizione detta
libertà? È quanto Dostoevskij sostiene nella celebre Leggenda del Grande
Inquisitore: il cardinale capo dell’Inquisizione riconosce Cristo
tornato sulla terra, lo imprigiona e nella notte gli tiene una vera e
propria lezione di psicologia e di filosofia del potere in cui sostiene
che gli esseri umani sono mossi da un angoscioso interrogativo:
«Dinnanzi a chi inchinarci? ». Essi infatti non cercano la libertà,
perché «nulla mai è stato per l’uomo e per la società più intollerabile
della libertà». Secondo questa prospettiva la schiavitù non è una
prigione in cui gli uomini, originariamente liberi, sono stati condotti,
ma è un’oscura quanto originaria condizione dell’esistenza fisica e
psichica. La questione a questo punto diviene di natura squisitamente
filosofico-teologica: lo scopo della vita è di essere liberi in quanto
autonomi e indipendenti, oppure è di legarsi a qualcosa di più grande di
noi che ci libererà veramente da noi stessi e dalle nostre angosce? E
in questo secondo caso, come far sì che tale legame, di natura
inevitabilmente asimmetrica, non si trasformi in schiavitù ma generi
liberazione e vera libertà?
Questo è lo sfondo teoretico su cui
porre la questione del rapporto religione-schiavitù, a proposito del
quale la situazione è alquanto contraddittoria. Che la religione abbia
incrementato la schiavitù non vi sono dubbi, la cosa appare evidente già
nella Bibbia a partire da una delle sue pagine più note, il cosiddetto
sacrificio di Abramo. Perché Dio chiede ad Abramo di uccidere il piccolo
Isacco, generando nell’intimo del bambino un tale terrore da cui mai
più sarebbe guarito (non a caso due volte nella Genesi Dio è designato
“Terrore di Isacco”)? La risposta è una sola: per ottenere la più
assoluta sottomissione. Non c’è nulla infatti per un uomo di più
prezioso di un figlio, e Dio proprio quello richiede ad Abramo. Come
denominare il comportamento di Abramo? Fede? Se lo è, lo è nella forma
della più totale schiavitù. Questa fede, se può portare a uccidere il
proprio figlio, chissà quale violenza può generare verso i presunti
nemici della propria religione. Se la religione ha versato, e continua a
versare, tanto sangue, è a causa di questo modello di fede,
un’obbedienza così totale e sottomessa da essere in realtà schiavitù.
È
a questa prospettiva che a mio avviso sono riconducibili i fenomeni
degenerativi e violenti che hanno a lungo accompagnato il cammino delle
religioni, per la Chiesa cattolica si pensi all’Inquisizione, all’Index
librorum prohibitorum e alla sistematica opposizione contro l’affermarsi
dei diritti umani, tra cui libertà di coscienza e di stampa, suffragio
universale, emancipazione femminile, laicità dello Stato. Non deve
quindi sorprendere che la Chiesa cattolica giunse persino a pronunciarsi
contro l’abolizione della schiavitù. La cosa avvenne nel 1866, quando
in risposta ad alcune questioni del vicario apostolico in Etiopia, Pio
IX firmò un documento, tecnicamente denominato Instructio, in cui si
legge: «La schiavitù in quanto tale, considerata nella sua natura
fondamentale, non è del tutto contraria alla legge naturale e divina.
Non è contrario alla legge naturale e divina che uno schiavo possa
essere venduto, acquistato, scambiato o regalato». L’anno prima gli
Stati Uniti d’America avevano abolito la schiavitù. È altrettanto vero
però che la religione ha anche contribuito a combattere, teoreticamente e
praticamente, la schiavitù. Per il primo aspetto si pensi a san Paolo
che scrive: «Non c’è più né giudeo né greco, né schiavo né libero, né
maschio né femmina» ( Galati 3,28); per la dimensione pratica si pensi
al chiaro appello alla ribellione contro la dominazione romana presente
nell’ultimo libro del Nuovo Testamento: «Ripagatela con la sua stessa
moneta, retribuitela con il doppio dei suoi misfatti. Versatele doppia
misura nella coppa in cui beveva » ( Apocalisse 18,6). Oltre a
inquisitori e amici dei dittatori, il cristianesimo ha generato gente
come Gioacchino da Fiore e Francesco d’Assisi, i movimenti pauperistici e
radicali che hanno sempre portato avanti l’idea dell’uguaglianza di
tutti gli esseri umani, e nell’epoca moderna Tolstoj, Bonhoeffer,
Capitini, don Milani, Romero, Camara, Balducci, Turoldo, Arturo Paoli e
gli esponenti della teologia della liberazione (riabilitata da papa
Francesco dopo le persecuzioni di Giovanni Paolo II e dell’allora
cardinal Ratzinger).
A questo punto però occorre ricollegarsi alle
considerazioni iniziali sulla forma più insidiosa di schiavitù, quella
interiore, e comprendere che è a questo livello che la vera religione dà
il meglio di sé contribuendo alla liberazione dall’ego. L’atto
fondamentale dell’autentica religio è la conversione dell’io, che si
libera dalla schiavitù verso di sé svuotandosi della volontà di potenza
ed entrando nella logica della relazione armoniosa. Qui c’è superamento
dell’ego ma non schiavitù, la quale non c’è perché non c’è più signoria
ma una forma nuova di relazione, che, con le parole del Vangelo («vi ho
chiamato amici» – Giovanni 15,15), si
può chiamare amicizia.
IL
FESTIVAL Vito Mancuso partecipa a èStoria “ Schiavi”, il festival
internazionale della storia, ideato e diretto da Adriano Ossola, a
Gorizia fino a domani. Info: www. estoria. it