Repubblica 21.5.16
Tra i medici di Gorizia sulle orme di Basaglia “Insegniamo agli stranieri a chiudere i manicomi”
Il Dipartimento di salute mentale chiamato a portare in Slovenia la rivoluzione dello psichiatra
di Maurizio Crosetti
GORIZIA
Primo cancello, secondo, terzo, quarto cancello. Il parco. A sinistra
gli uomini, due palazzine, a destra le donne. In fondo, i cronici e gli
agitati. Il mondo cominciava a finire dopo i quattro pilastri e il
terrazzo d’ingresso, sotto la scritta rossa Ospedale Psichiatrico
Provinciale. Ma 38 anni fa, il 13 maggio 1978, le prime figure lente e
dondolanti, le prime persone opache e fragili, i matti senza più lacci
ai polsi né fili elettrici in testa uscivano per sempre da qui. Il loro
liberatore, il professor Franco Basaglia, sarebbe sopravvissuto appena
due anni. Ma le sue idee, la battaglia perché un malato fosse soltanto
un malato e non la sua malattia, restano vive e fresche come il primo
giorno. Talmente vive che la Slovenia, dove ancora esistono sei
manicomi, adesso ci chiede aiuto per diventare come noi e aprire le
porte della reclusione sociale e del dolore indicibile.
«È un
progetto da dieci milioni di euro e l’Italia ne sarà il modello. Per una
volta, sono gli altri a copiare noi». Franco Perazza è uno psicologo. È
alto, lungo, magro. Dirige il Dipartimento di salute mentale goriziano
ed è orgoglioso che proprio qui, dove nel 1962 tutto iniziò con
Basaglia, molto ancora continui. «Gli sloveni ci hanno chiesto di
aiutarli a creare sul territorio un’assistenza sociale simile alla
nostra, e di formare il personale. In Friuli-Venezia Giulia la legge 180
ha trovato piena realizzazione, abbiamo quattro centri di salute
mentale per 4 mila persone in cura da Gorizia a Latisana. Non si
ospedalizzano neppure i trattamenti sanitari obbligatori, ma si viene
seguiti in emergenza e poi a domicilio. Non tutti sanno che l’Italia è
stata la prima nazione a chiudere i manicomi».
Dov’era la cappella
mortuaria, oggi c’è un laboratorio musicale gestito da una cooperativa
che dà lavoro agli ex malati. E nelle stanze degli agitati hanno
sistemato gli uffici. Nel parco Basaglia, un monumento di pietra ricorda
un abbraccio o forse un ventre di donna. «Abbiamo anche piantato dieci
ulivi insieme ai ragazzi delle scuole, qui gli alberi ormai cadevano e
basta». Gianni Cavallini è il direttore sanitario dell’Aas 2. Non porta
il camice bianco. «Andiamo, che vi offro un caffè con brioche in
Slovenia, sono quattro passi». Le due Gorizie, quella “di qua” e quella
“di là”. Il muro del vecchio manicomio correva lungo il confine, «qui i
ricoverati scappavano in Jugo e poi li riportavano indietro».
Scavalcavano la rete e fuggivano sotto i tigli dove finisce Gorizia e
comincia Sempeter. La pietra bianca che segna la frontiera porta inciso
da un lato “R. d’Italia 1947” e dall’altro “R. Slovenija”. Appena più
avanti c’è il Sent, il centro riabilitativo psichiatrico con i lavoretti
dei pazienti appesi ai vetri e un calciobalilla contro il muro. Di
fronte, il baretto è pieno di slavi che alle nove e mezza di mattina già
ci danno dentro con bianco e pivo, la birra che qui costa niente. Ma
l’atmosfera antica svanisce dopo un paio di curve, e Nova Gorica si
trasforma in una piccola Las Vegas punteggiata dai casinò illuminati a
giorno, tra i palazzoni del socialismo reale: banche e outlet ne hanno
cancellato il senso, non le architetture. Qui ci sono i soldi e si vede.
La
dottoressa Petra Kokovarev ci aspetta nel suo ufficio alla Zdravsteni
Dom, cioè la Casa della Salute che dirige da pochi mesi. Ha solo 40
anni. Quando Basaglia liberava i matti, lei andava all’asilo. «Il
modello italiano è molto importante, molto interessante per noi. In
questo momento una trentina di malati di Nova Gorica sono ricoverati al
manicomio di Idria, nella Slovenia occidentale. Ancora non siamo pronti,
purtroppo, ad utilizzare una rete di servizi sul territorio ma ci
arriveremo. Serve unità. Dobbiamo dirlo, mentre l’Europa alza nuovamente
assurdi muri contro l’integrazione. Un giorno, un malato sloveno potrà
curarsi in Italia e viceversa ». Qui si era tentato di far nascere i
bimbi italiani dopo la chiusura del reparto maternità di Gorizia.
L’esperimento non ha funzionato perché le partorienti, in media appena
una al giorno, hanno preferito Monfalcone, Palmanova e Trieste. «Ma con
la malattia mentale sarà diverso », assicura Petra.
Quando la
dottoressa Kokovarev aveva due anni, Norberto Bobbio definì la chiusura
dei manicomi «l’unica vera legge di riforma del nostro Paese». Nel ’78,
Basaglia l’avevano fatto scappare da Gorizia, già lavorava a Trieste. «È
stata tutta una rimozione, e il senso di colpa ancora non è svanito».
Il dottor Perazza ci accompagna in quello che fu lo studio del padre
dell’antipsichiatria: in apparenza rimane, di quel tempo battagliero e
prezioso, una semplice libreria in legno, però i muri sono pieni di
manifesti colorati e dalle finestre entra il canto mattutino degli
uccelli. Impossibile percorrere stanze e viali senza pensare allo
strazio che contennero, alle mostruosità da campo di concentramento. «Ma
la sottrazione di ogni diritto è diventata possibilità di una vita
diversa, è diventata dignità, non dimentichiamolo mai». Curare e non più
segregare. Non soltanto sedare. Tra qualche mese comincerà la gestione
comune tra Italia e Slovenia per un bacino di quasi 80 mila abitanti,
una piccola rivoluzione che non finisce mai. «Vedrete che tra un paio di
generazioni Gorizia, Nova Gorica e Sempeter saranno per tutti una città
sola». Ne è sicuro il direttore Cavallini mentre ci accompagna ai
giardini di corso Verdi, dove alla Casa della Cultura hanno allestito la
mostra “Le memoria restituita”. Alle finestre, uno striscione cubitale:
“La libertà è terapeutica”. A metà mattina passa pure il sindaco Ettore
Romoli, giunta di centrodestra. Un poco scherza, «ehi, siamo forse
tornati al ’68?» e un poco no.
Il recupero del vecchio archivio
del manicomio è una miniera di storie, spunti, documenti. Entrando, si
sbatte contro un manichino con addosso la camicia di forza. Ci sono le
lettere dei malati, un libro della biblioteca dell’ospedale che avrà
forse alleviato qualche pena. Sulla parete scorre il documentario di
Sergio Zavoli, “I giardini di Abele”, anno 1968, modernissimo esempio di
giornalismo. Parla Basaglia, camminando nervosamente avanti e indietro
(«…la definirei una denuncia civile prima che una proposta psichiatrica
»), si vedono scarpe e vestiti ammucchiati come ad Auschwitz, poi un
malato che suona lo xilofono, chiavistelli, infermieri che si difendono
(«Non è vero che li picchiamo, dobbiamo solo proteggere gli altri
ricoverati! »), ombre dolenti che barcollano nei viali e si tengono la
testa tra le mani, muti. Si vedono i cancelli che cadono e, forse,
l’inizio di una vita diversa. Quella di prima è qui nella stanza,
appoggiata su una mensola: si chiama Convulsor. È una cuffia per
l’elettroshock con morsetti e fili elettrici, grossi e attorcigliati
come serpenti. Sui libro dei visitatori, una mano ha scritto mai più.
(13 - continua)