il manifesto 21.5.16
Un maschio portato al settimo cielo
Il fondamentalismo religioso vuol cancellare il protagonismo della libertà femminile
di Lea Melandri
Non
si può negare il fatto che la religione sia un prezioso archivio della
memoria degli individui e della specie, di vicende che stanno ai confini
tra inconscio e coscienza. C’è la stupidità del fanatismo, ma ci sono
anche sublimi simbolizzazioni, interrogativi che vanno alla radice
dell’umano. È su questa stratificazione di simboli che va portato lo
sguardo, riconoscendoli come proiezioni del modo in cui viviamo.
Il
pensiero laico e il pensiero religioso sono in realtà imparentati, anzi
«consanguinei», come dice Stefano Levi nel suo Laicità, grazie a Dio
(Einaudi) che alcuni anni fa presentammo al Festival delle Letterature
di Mantova: se la religione è quella che cerca le «cause occulte» delle
cose, lo stesso fanno la filosofia e la metafisica. E la religione
sembra avere la precedenza.
Ora, riflettere sul pensiero, sulle
forme che ha preso nelle sue costruzioni, laiche o religiose che siano,
vuol dire chiedersi innanzi tutto chi è il soggetto del pensiero e come
si è configurata, nella storia che abbiamo conosciuto – opera di una
comunità di soli uomini – la sua nascita. La consanguineità fra la
religione e le altre costruzioni simboliche sta prima di tutto nel fatto
di discendere dalla stessa matrice: quel «principio maschile» che –
come scrive Bachofen ne Il matriarcato – «nell’ambito dell’esistenza
fisica è al secondo posto, subordinato al principio femminile».
Da
ciò si deduce che la «consanguineità» tra pensiero laico e religioso è
molto più di una «contaminazione»; discende dal fatto che traggono la
loro origine da quel soggetto unico maschile, da quella visione unica
del mondo che ha violentemente e astrattamente differenziato –
complementarizzato e posto secondo un ordine gerarchico- materia e
spirito, natura e cultura, individuo e genere, corpo e pensiero,
identificando e confondendo l’uscita dall’animalità e la nascita del
linguaggio con il destino del maschio e della femmina.
La
«consanguineità» sta dunque in quello che Otto Weininger – singolare
figura di intreccio tra filosofia e religione, posta all’inizio del
Novecento ed espressione della crisi della ragione occidentale, nel
momento in cui avanza l’emancipazione femminile – chiama l’enigma del
dualismo, collegandolo col peccato originale. Il corpo, la sessualità,
comparendo sulla scena pubblica – sono gli anni della scoperta della
psicoanalisi -, rappresentano una minaccia per quello che era stato il
fondamento etico, filosofico/religioso della cultura occidentale,
greca-romana-cristiana. In questo discorso appare chiaro come la
trascendenza, su cui la religione costruisce il mistero di Dio, l’Essere
perfetto, il Valore assoluto, è imparentata con la trascendenza che si è
attribuita l’Io maschile. Alla donna, che rappresenta la sessualità, la
materia, il non essere, e che perciò incarna per l’uomo la caduta, la
colpa, si impongono regole morali superiori a quelle dell’uomo: la
purezza, la verginità.
Per essere «redentrice» dell’uomo deve
«essere uccisa e riportata in vita». L’Io maschile e Dio si pongono così
su una linea di continuità: L’Io (Dio) come tempo è volontà. La volontà
diventa valore (l’uomo diventa Dio) quando esce dal tempo.
Per
concludere allora, l’essenza dell’idea di Dio e la sua importanza per
l’umanità, è che «Dio è l’uomo perfetto», e l’uomo perfetto, come Gesù
Cristo, è Dio.
Le figure e i gesti che la mente religiosa proietta
sull’oscurità del mistero parlano dunque dell’origine della civiltà
maschile, del modo con cui ha inteso differenziarsi dalla natura, dal
corpo femminile che genera e che porta perciò i segni dei limiti mortali
dell’umano. Parlano della ri-nascita o ri-generazione del mondo
spostata sul versante di un principio maschile spirituale: una
genealogia di padre in figlio dove la donna è mediazione simbolica,
contenitore.
Forse è proprio in queste rappresentazioni così
vicine all’origine e a quelle domande insopprimibili dell’umano, che
hanno a che fare con la nascita, la morte, il diverso destino toccato
all’uomo e alla donna, che la religione esercita un fascino così
duraturo. Nella rappresentazione del sacro, si può dire che il soggetto
maschile della storia ha tentato di dare un senso, volgendolo a proprio
favore, al mistero della nascita e della morte, all’uscita della
coscienza dall’animalità, all’angoscia dell’originaria in distinzione
col corpo della madre, al bisogno di differenziarsi e di controllarne la
potenza.
La rivalsa delle religioni oggi può essere legata alla
crisi delle istituzioni politiche, ma anche al protagonismo che hanno
preso il corpo, la sessualità e la libertà femminile.
Si può
pensare che la durata e il fascino della religione venga dal fatto che
l’aspetto sessuato e sessuale lì è esplicito – non rimosso -,
teatralizzato e spettacolarizzato.
Vi si possono leggere confusi
amore e violenza, il sogno di armonia degli opposti e il sessismo, il
razzismo. Ecco perché non stupisce leggere il recente interesse
giornalistico sul rapporto fra donne e religioni, soprattutto
monoteistiche, nel volume appena pubblicato da Giuliana Sgrena, con il
titolo provocatorio Dio odia le donne (Il Saggiatore).
La
religione parla di madri, figli, padri, nascite, morti e resurrezioni,
dannazione e riscatto della carne, dell’umano, del femminile. La
religione sublima in modo evidente il rapporto tra i sessi, le figure di
genere nella loro ambiguità: figure che strutturano rapporti di potere
ma anche d’amore, che tengono dentro la complementarietà e la spinta
alla riunificazione.
Affrontando le problematiche del corpo, dei
sessi, il femminismo ha portato la laicità al suo fondamento primo. Ma
non ha affrontato la religione direttamente, nelle sue costruzioni
simboliche, così come non ha affrontato il sogno d’amore, la
fusionalità, l’unione mistica. Forse è proprio da ricercare in questa
ambiguità la ragione prima del consenso di cui la religione gode anche
presso le donne.