il manifesto 211.5.16
La trappola della verginità
Tempi
presenti. «Dio odia le donne», il nuovo libro di Giuliana Sgrena, uscito
per Il Saggiatore. Una ricognizione, anche in chiave autobiografica,
sulle ambiguità e le efferatezze delle religioni perpetrate ai danni del
corpo (e della mente) femminile
di Alessandra Pigliaru
Si
intitola Dio odia le donne (pp. 2014, euro 18) ed è il nuovo libro di
Giuliana Sgrena pubblicato di recente da Il Saggiatore. Fin
dall’introduzione si apprende che non si tratta di un pamphlet, né è un
lavoro che desideri offrire una nuova esegesi delle fonti o una
disquisizione teologica. La disposizione attraverso cui leggere questo
volumetto, agile e al contempo solido, equipaggiato di dati ma godibile
nella scrittura tagliente e svelta, si adegua allora a ciò che la stessa
Sgrena dichiara di aver effettuato: una narrazione di carattere
esperienziale, frutto di una ricerca personale che l’ha portata ad
analizzare l’immaginario e le ricadute sociali che emergono nel
confronto tra le tre religioni monoteiste e il sesso femminile.
La
ricognizione è ampia e si innerva nella stessa biografia dell’autrice. A
essere messe a nudo non sono solo le contraddizioni interne alle
singole religioni che, secondo Sgrena, hanno sostenuto il patriarcato;
ciò che appare è la manipolazione costante della laicità e dei suoi
simboli da parte di chi perpetra e piega a proprio uso e consumo testi,
scritture e fonti spesso lette malamente con l’unico scopo di
controllare e mondare la sessualità e i corpi. In questo senso, il libro
colpisce fin dall’immagine del fotografo russo Oleg Dou scelta per la
copertina. Un primo piano di una figura non ben identificabile e liscia
nei lineamenti che allude al nome dell’opera, «nun» ovvero suora,
intercettabile solo dal copricapo.
La figura ambivalente della
suora apre e chiude il volume, dapprima legata all’infanzia di Sgrena
che si è misurata con delle scuole cattoliche e che, in considerazione
del padre comunista, veniva costantemente avvisata delle preghiere per
lei. Così alla fine, quando racconta che una suora incontrata per caso
le rammenta che in molte e molti hanno pregato durante la sua prigionia.
Ma lei no, certo grata per la solidarietà, tuttavia non ha mai pregato
neppure in quelle ore di dolore: «anche quando sentivo la morte vicina,
ogni volta che i miei guardiani giravano la chiave nella toppa della
porta e pensavo potesse essere arrivata la mia fine, quando avevo paura
all’idea che mi potessero sgozzare». Il punto è è complesso, perché a
restituire un approccio «neutrale» e da atea sulle religioni è una donna
che ha contezza del suo sesso. E che osserva i meccanismi e gli
attraversamenti storico-politici di oppressione senza per questo tacere i
guadagni delle forme di autodeterminazione e libertà femminili, con
quel rovesciamento dello sguardo quando negli anni ’70 racconta dei
primi gruppi di self-help dopo la dirompenza del ’68.
Il libro si
dipana per temi, ciascuno dei quali è sgranato al dritto e al rovescio.
Ciò che rappresenta oggi la verginità non è più quella restituitaci da
Margaret Mead; risente invece, secondo i vari e distinti contesti, di
ulteriori e ben più terrestri storture nella sua appropriazione. Lo
racconta la giornalista che ha intervistato alcune giovani musulmane e
che hanno accusato il disagio di non poter vivere con agio la propria
sessualità. Esistono in questa configurazione, ad altre latitudini, vere
e proprie «fabbriche della verginità», che propongono per esempio
l’imenoplastica; a Parigi nella clinica di Marc Abecassis, per 2000
dollari, o dalla società Gigimo, con sede a Shangai, che confeziona per
15 dollari un imene artificiale con accluse gocce rosse, simili al
sangue.
Al di là di queste annotazioni, il tema della verginità
richiama quello più vasto del controllo proprietario della sessualità
femminile; i dati sconcertanti sono pubblicati nel 2013 dall’università
di Cambridge dalla rivista di criminologia Aggressive Behaviour, secondo
uno studio condotto in Giordania in cui un terzo degli studenti
ascoltati si sono dichiarati d’accordo con il delitto d’onore. Retaggi
culturali duri a morire, come quello legato alla piaga ancora devastante
delle mutilazioni genitali. Sgrena riferisce i dati di ciò che accade
ancora in Somalia, nonostante la strenua battaglia intrapresa da Edna
Adan Ismail che da parecchi anni riesce a sottrarre molte bambine a
questo efferato rito di iniziazione, insieme ad altre attiviste in tutto
il mondo; basti pensare alle testimonianze della scrittrice egiziana
Nawal El Saadawi.
L’appropriazione della sessualità si attaglia,
drammaticamente, a quella dell’aborto, con la presenza degli obiettori
di coscienza che hanno contribuito allo svuotamento qui in Italia della
194. Se allora è in nome della fede che si sdoganano pratiche simili,
sarà il caso di soffermarsi ancora e di discutere nel profondo altri
nodi, ancora irrisolti. Perché all’odio, tutto umano, si possa
rispondere con l’agire politico.