Repubblica 21.5.16
Le “anime” del Pd
Quel compromesso illusorio
di Gian Giacomo Migone
CARO
direttore, ho letto con attenzione il lungo ed argomentato intervento
di Alfredo Reichlin pubblicato su Repubblica il 16 maggio. Sono
abbastanza sicuro di averlo capito bene. Ci conosciamo da parecchi anni.
Reichlin cerca di salvare da se stesso il presidente del Consiglio,
nonché segretario del Pd: un plebiscito potrebbe avere un effetto per
lui disastroso, forse anche per il Paese (ma questo, presumo, gl’importi
meno). Il suggerimento suo e forse di altri sembra avere sortito un
effetto, immediato com’è nel suo stile, con l’improbabile argomento che
sono gli oppositori della riforma costituzionale ad avere personalizzato
il dissenso. In realtà, da buoni professoroni, abbiamo ripetutamente e
noiosamente spiegato che di regole si tratta, che non devono essere
soggette a maggioranze di governo, oltretutto puntellate da abusi di
voti di fiducia. Soprattutto, che esse non devono ledere alcuni principi
costituzionali a fondamento della nostra democrazia: sovranità
popolare, con il conseguente diritto dei cittadini ad esprimere la
propria rappresentanza, governo a cui corrisponda un Parlamento
altrettanto forte, separazione dei poteri, autonomie non improvvisate.
Non
credo di sbagliarmi se affermo che la sua preoccupazione di fondo sia
quella di salvaguardare l’unità del Partito Democratico, offrendo una
via d’uscita alla sua minoranza dalle sue ambasce attuali. Ricorrendo ad
un antico timore della tradizione comunista, che fedelmente rievoca,
quella di una “spaccatura del Paese”, Reichlin propone un compromesso:
il segretario rinunci ad una tattica referendaria legata alla sua
persona e in cambio riceva il sostegno al Sì degli oppositori interni,
paghi della soddisfazione di avere eliminato il bicameralismo paritario,
non importa come, con che cosa e a quale prezzo; eventualmente pronti a
pronunciare qualche penultimatum riguardo alla vigente legge
elettorale.
In realtà si tratta di un compromesso illusorio, non
soltanto per la mercurialità del presidente del Consiglio, appena
dimostrata con il voltafaccia sul voto al lunedì: fatto apparentemente
banale, ma che nasconde la rinuncia ad una partecipazione dei cittadini
al voto che costituiva uno dei motivi di forza della democrazia italiana
rispetto ad altre. O anche questo è populismo?
Tuttavia, vi è un
altro fatto che mina alla radice la stabilità del compromesso — meglio
sarebbe chiamarla tregua — interno al Pd che Reichlin propone. Vittorio
Foa lo chiamava il silenzio dei comunisti rispetto alla revisione della
loro pur grande storia che ha contribuito in maniera decisiva non solo a
scrivere la Costituzione, oggi messa in discussione in alcuni suoi
gangli vitali, ma a salvaguardare l’Italia dal cosiddetto socialismo
reale e da forme involutive all’interno della Nato cui Washington sapeva
ricorrere alla bisogna. Ricordo una riunione della direzione del Pds in
cui Reichlin aveva il compito di spiegarci che dovevamo tutti diventare
socialdemocratici. Dissi allora: «Sono d’accordo, ma forse non basta la
relazione ad una riunione della direzione, nemmeno un libro di Massimo
L. Salvadori che rivaluti l’ex ”rinnegato Kautsky”. La Seconda
Internazionale ha una storia più lunga della Terza. Wigforss, Beveridge,
Meidner, Brandt… Non serve Blair». Con un sorriso mi rispose: «Tu ci
odi veramente». Ebbene non è così. E la sinistra non comunista, sia
laica che cattolica, cui appartengo per cultura politica, deve chiedersi
quanto in Italia abbia realizzato in nome della sua maggiore
comprensione della storia occidentale.
Ma non voglio divagare più
di tanto. Ciò che manca, e che ancora costituisce problema per la
democrazia italiana, al di là di tutte le conclamate rottamazioni, è una
comprensione critica dello stato del Paese e quale sia il compito di
forze, per quanto diversificate, che ne vogliano salvaguardare la
democrazia. Tutto ciò in un contesto mondiale in cui il predominio della
finanza tende a sostituirsi alle istituzioni politiche e
l’impoverimento dei ceti medi apre inquietanti prospettive. E in cui la
Banca Morgan, dopo avere contribuito a consolidare il regime
mussoliniano negli anni Venti, ancora una volta consiglia di ridurre la
democrazia specie nei Paesi caratterizzati da costituzioni postfasciste.
No,
stiamo al merito, come dice giustamente, e come sembra dire, almeno
fino al prossimo sondaggio d’opinione, colui che — presume — ci salva da
ulteriori disgrazie, conservando gelosamente quella coalizione
corporativa, la classe dirigente italica, politica e non, di cui
amministra temporaneamente gl’interessi. E se, così facendo, senza
plebisciti favorevoli e contrari, si dovesse spaccare il Paese sulla
base di un diverso giudizio sul ddl Boschi… è la democrazia, bellezza!
Gian Giacomo Migone è stato presidente della Commissione Esteri del Senato dal 1994 al 2001