Repubblica 19.5.16
Hillary, incubo Convention con rissa
Mentre
i repubblicani si ricompattano su Trump, la vittoria di Sanders in
Oregon e il quasi pareggio in Kentucky mettono nei guai la Clinton: ha
dalla sua i numeri, ma la sinistra radicale promette battaglia fino alla
fine
di Federico Rampini
NEW YORK. «Qualcuno ti
deve sparare in faccia». «Sappiamo dove abiti e dove vanno a scuola i
tuoi figli». «Quelle come te bisogna impiccarle in piazza». Minacce
circolate sui social media. Bersaglio: Roberta Lange che dirige il
partito democratico del Nevada. I mittenti? Seguaci di Bernie Sanders. A
far esplodere in questo weekend le aggressioni verbali – e anche una
vera rissa fisica – è stata l’assegnazione della maggioranza dei
delegati di quello Stato a Hillary Clinton (che peraltro aveva vinto le
primarie a febbraio).
L’episodio fa scattare l’allarme: è un
presagio di quel che accadrà alla Convention democratica di luglio? “
Contested convention”: qualche settimana fa era lo scenario in casa
repubblicana, finché l’establishment tramava per scippare la nomination a
Donald Trump. Ora le parti sono rovesciate. È in campo democratico che
si teme una Convention turbolenta e contesa. La durata anomala del
duello tra Hillary e Bernie, l’asprezza delle accuse lanciate dalla
sinistra radicale, fanno temere il peggio. Si riuscirà a ricompattare la
base del partito prima di novembre?
Il verdetto delle ultime due
primarie in Kentucky e Oregon non aiuta. Hillary, che pure aveva
stravinto in Kentucky nel 2008 contro Barack Obama, martedì ha avuto una
vittoria così striminzita da sembrare un pareggio. Sanders invece ha
vinto bene in Oregon. Quindi va avanti a oltranza. E sogna il colpo più
clamoroso: conquistare la California a giugno, il trofeo più grsso.
Probabilmente non gli basterebbe neanche quello per acciuffare i
delegati di Hillary. Lei ha un vantaggio così netto grazie ai
superdelegati ma non solo: in termini di voti popolari ne ha raccolti
tre milioni in più del suo rivale. Eppure gli scontri del Nevada la
spaventano. Ancora di più, gli annunci di diversi movimenti radicali che
vogliono guastarle la festa a Philadelphia a luglio. Altro che
incoronazione, c’è chi sogna un bis di Chicago 1968, la Convention più
violenta della storia contemporanea. Sono gruppetti, eredi di Occupy
Wall Street. Ma Sanders esita a prendere le distanze. Dopo che nel
Nevada alcuni dei suoi hanno aggredito i militanti pro-Hillary a colpi
di sedie in testa, il senatore socialista del Vermont ha atteso a lungo
prima di prendere posizione. Alla fine in un secco comunicato ha
«condannato ogni forma di violenza», al tempo stesso ne ha dato la colpa
ai vertici democratici per avergli negato «una competizione leale e
trasparente» (ce l’ha con le primarie chiuse dove non votano gli
indipendenti). Sul Washington Post Dana Milbank commenta: «Sanders ormai
fa campagna contro i democratici».
Torna lo spettro di Ralph
Nader, il candidato verde che fece perdere l’elezione al democratico Al
Gore contro George W. Bush nel 2000. Nei numeri elettorali Sanders è un
gigante rispetto a Nader. In comune ha una cosa: le sue denunce sui
«politici venduti alle lobby, finanziati da Wall Street» colpiscono
senza distinzioni a destra e a sinistra, demonizzano la Clinton, rendono
più difficile cambiare registro all’improvviso e fare confluire voti su
di lei.
I vertici del partito democratico reagiscono
arroccandosi. Per loro Sanders è un corpo estraneo: fino all’altroieri
si definiva un socialista indipendente, non era neppure iscritto al
partito democratico. Con rare eccezioni come la senatrice del
Massachusetts Elizabeth Warren (legata al movimento Occupy Wall Street),
anche l’ala sinistra dei democratici alla Bill de Blasio non ha esitato
a schierarsi con la Clinton.
Ma Bernie Sanders cavalca un
fenomeno che viene da lontano. Raccoglie i frutti del lavoro di
mobilitazione capillare condotto da diciassette anni da movimenti come
Move.On. Nato a San Francisco alla fine dell’èra Bill Clinton, con
l’obiettivo di spostare l’asse del partito a sinistra. William Galston
sul Wall Street Journal ricorda che ai tempi di Bill Clinton solo il 29%
dei democratici si definivano “liberal” cioè radicali di sinistra. Oggi
sono saliti al 45% mentre i democratici che si autodefiniscono moderati
sono solo il 35%.
La Clinton ne tiene conto, sta spostandosi più a
sinistra, abbraccia le proposte di Sanders sul salario minimo a
quindici dollari e sulla Sanità pubblica per tutti, prende le distanze
dai trattati di libero scambio.
Hillary ormai evita accuratamente
gli attacchi diretti al suo rivale, concentra l’attenzione su Trump. Lei
si aspetta che Sanders faccia a sua volta qualche gesto distensivo. Ma
se anche lo facesse, sarà troppo tardi? I giovani che s’infiammano ai
comizi del 67enne socialista, gli sentono ripetere da mesi che Hillary
riceve fondi da Wall Street, è lei stessa parte di un sistema marcio,
sostanzialmente corrotto. A dirgli «abbiamo scherzato, contrordine, si
vota per lei» si rischia che a novembre non vadano alle urne.