La Stampa 19.5.16
Per Hillary ora vincere è più dura
di Gianni Riotta
Vola
tumultuosa la campagna elettorale americana. Ci eravamo preparati alle
barricate alla Convenzione repubblicana di Cleveland, con i falchi del
«#MaiTrump!» a bloccare la nomination del costruttore di New York,
sostenuti da un candidato centrista tra botte da orbi sugli spalti, e
invece a litigare sono i democratici. Tra i repubblicani lo Speaker
della Camera Paul Ryan si rassegna a Trump e la leggendaria Peggy
Noonan, autrice dei discorsi di Ronald Reagan, lo legittima sul Wall
Street Journal, irridendo i neoconservatori: «Dove eravate quando il
partito andava allo sfascio?».
Il candidato socialista Sanders,
pur battuto nei numeri e indietro di 3 milioni di voti, non molla, vince
in Oregon e minaccia: «In California farò una sorpresa a Hillary».
La
campagna, fin qui garbata, tra il veterano indipendente del Vermont e
l’ex First Lady, inacidisce. Agli affollatissimi comizi di «Bernie» la
Clinton è sommersa di fischi ad ogni citazione, senza che il canuto
oratore faccia un gesto per placare la foga dei supporters, giovani,
maschi, bianchi. In Nevada i «sanderisti» hanno tirato sedie, pubblicato
numeri di cellulari, diffuso minacce di morte contro la leader
democratica locale Roberta Lange, accusata di favorire la Clinton. Il
senatore depreca le violenze con frasi di circostanza, e rilancia «le
regole restano però ingiuste». I «Bernie Bros», Fratelli di Bernie,
restano sul piede di guerra. Costernata la presidente del Partito
Democratico, Debbie Schultz: «La risposta del senatore Sanders è
inaccettabile, le frustrazioni non giustificano violenze e minacce.
Volete importare lo stile di Trump?».
Su YouTube diventa virale,
trasmesso ovunque, il video che raccoglie 13 (in certe versioni 14)
«Minuti di bugie di Hillary», condiviso con identica delizia da
repubblicani e sanderisti. Al microscopio politico dei Big Data, i due
gruppi sono infatti assai meno diversi di quel che la retorica da talk
show suggerisce. Bianchi, maschi, diploma di scuola superiore (tra i fan
di Trump), laurea al college (fan di Sanders). Poche donne,
afroamericani e ispanici, rabbia per il lavoro perduto con l’economia
«neoliberista» di Bill Clinton, nemici del libero commercio, dal Nafta
con l’America Latina al Ttpi con l’Europa, che Trump e Sanders bocciano e
la Clinton finge di bocciare per non perder voti.
I repubblicani,
pur malmostosi, si riuniscono dietro Trump, i democratici faticano a
dare a Hillary l’ok finale. Non cercate le ragioni dell’impasse in un
bizzarro algoritmo ideologico, badate al sodo: razza, etnia, genere,
economia, rancore sociale. In un dialogo via mail pubblicato da The
Atlantic http://goo.gl/amoSiZ con lo stratega democratico Bob Shrum, lo
studioso repubblicano David Frum anticipa una possibile tattica per
Trump, consapevole che non va al voto «l’America», ma tante,
irriducibili tribù, maschi, femmine, giovani, vecchi, neri, bianchi...
Se
Hillary incassa il 40% degli elettori bianchi e il 60% delle minoranze
vince, per questo annuncia di affidare l’economia al marito Bill,
popolarissimo tra i neri (non lo farà di certo). Frum spera invece che
Trump mobiliti i bianchi laureati, tenga i voti del candidato Romney nel
2012, si affermi anche tra i giovani arrabbiati neri e ispanici,
vincendo a sorpresa Florida o Virginia, in un agguato perfetto alla
Clinton. Shrum non abbocca, «Trump è odiato da 87% di latinos, 91% di
afroamericani, 70% di donne, è in un vicolo cieco demografico. Se
guadagna voti tra gli operai bianchi, li perde tra indipendenti e
repubblicani».
L’equazione di Shrum è impeccabile, la strategia di
Frum precaria, a patto però che Clinton e Sanders facciano, in fretta,
pace. Il senatore non è mai stato un democratico, con riluttanza il
partito lo accolse nel proprio gruppo parlamentare, i suoi discorsi sono
sempre critiche feroci alla leadership democratica. Sanders, lungi
dall’essere Robin Hood, è astuto politico, vinse il seggio alla Camera
1990 solo grazie ai soldi della potentissima lobby delle armi Nra. Oggi
tuona contro la piaga dei finanziamenti, allora li accettò serafico.
Vuol dirottare a sinistra il partito, con un manifesto «di rivoluzione
politica» e un discorso di fuoco alla Convenzione. Un suo sostenitore,
preside di una università d’élite Ivy League, afroamericano, mi dice
sereno «Hillary non la voto, è neoliberista, come Obama, non hanno fatto
nulla per i ghetti. Se vince Bernie voto, se no resto a casa. Hillary è
come Trump».