mercoledì 18 maggio 2016

Repubblica 18.5.16
Esce “Il cacciatore celeste”, il nuovo libro di Roberto Calasso che intreccia mito e realtà Dall’Egitto e la Grecia alla macchina di Turing
Nascita di Artemis la dea sovrana degli animali
di Roberto Calasso

La Sovrana degli Animali, che fu disseppellita in statuette numerose attraverso l’Europa, si imponeva per l’immobilità. Le sue vaste natiche, il petto pesante, le gambe unite nascondevano a mala pena che un tempo era stata un albero. Mentre ora poteva soltanto essere conficcata, con i piedi legati, nella cavità di un tronco. Gli animali, tutti gli animali, tutto ciò che nasce: erano i suoi devoti. La dea li osservava, immota. Sosteneva le creature come un tronco possente sostiene anche le fronde più remote. Tutto era un cerchio rombante intorno a lei. Tutti erano una sua fronda.
A un tratto la dea allungò un braccio, poi l’altro. Le mani si chiusero in una presa ferma sulla
collottola di due pantere – o di due uccelli acquatici. O afferrò per le zampe e rovesciò in aria due daini – o anche due leoni.
Si offriva come un maestoso spaventapasseri. Seguì un altro momento, il più misterioso, quello che nessuno osò raccontare, la cesura nella vita della dea: quando avanzò il suo primo passo, che fu subito una corsa. Evitò la città e gli uomini. Cercava i luoghi impervi e solitari, schiacciati dal cielo. O le paludi fruscianti di canne. O le radure che si aprivano nella foresta, mai calcate da orma umana. Era la dea dell’intatto. Correva e inseguiva la bestia invisibile. Anche il toro possente si inchinava a lei. Tutti gli animali temevano la sua corsa. Tutti sapevano che la freccia della dea li avrebbe raggiunti. Ma, quando riposava, qualche cerbiatto usciva dal folto e le lambiva le mani.
La Sovrana degli Animali era il supporto di un guardaroba mobile: la natura. Gli animali si aggrapparono al manto della dea e vi rimasero impaniati. Nel simulacro di Efeso soltanto il volto, le mani tese e le punte dei piedi non erano nascosti dalle vesti sovraccariche. E la pelle era nera d’olio, che colava da orifizi unti col nardo. Da quella immobilità coatta, da quelle ponderose figure si sfilò, come spogliandosi con un gesto agile e abbandonando un astuccio, Artemis, la dea più leggera, che corre e colpisce, mentre un corto chitone ondeggia sopra il suo ginocchio.
Abbandonata la guaina asiatica, non più oppressa dalle protomi animali e da quei grevi testicoli di toro che per molti secoli sarebbero stati scambiati per molteplici mammelle, seminuda e luccicante nella sua epidermide tesa, Artemis evocò, mentre correva, un altro che fosse l’altro, il rovescio stesso della natura, di cui era sazia. Un altro che, come lei, sapesse colpire la natura ma a cui la natura non avrebbe mai potuto vischiosamente aderire. Un altro che conoscesse innanzitutto il distacco. Artemis non lo avrebbe mai toccato, il contatto fra loro sarebbe stato una sovrapposizione perenne e invisibile. Evocò un gemello: Apollo.
Artemis correva come un maschio – e negli uomini il desiderio più acuto per una donna fu quello per Artemis che corre. Artemis correva come un maschio finché sapeva che poteva essere vista. Ma entrava nell’acqua come una donna, perché allora nessuno poteva vederla, se non le sue ancelle e compagne di caccia. La pozza d’acqua al centro del locus amoenus è il luogo segreto per eccellenza, il luogo dove la dea torna a immergersi nell’umidità del proprio corpo, il luogo dove accetta che il suo profilo indeperibile si cancelli parzialmente nel flusso da cui è sorto. Allora le compagne di Artemis la guardano – e questo è il segreto di cui soltanto loro sono partecipi. Ma chi sono quelle compagne? Sono Artemis rifratta e moltiplicata, delicatamente variata, dispersa. Non solo alle sue compagne Artemis si mostrava, ma anche ai suoi animali. Perciò Atteone si calò sul capo e sulle spalle una pelle di cervo. Dietro il masso muschioso spuntavano appena le corna, come rami tra le foglie. La sua colpa non fu certo quella, che sarebbe stata assai rozza, di voler stuprare la dea, ma di volerla guardare con lo sguardo dell’animale. Non esiste colpa più grave di questa, che obbligava la dea a ricordare l’età remota in cui era stata essa stessa l’animale, la prodigiosa cerva che fugge. Ma le dee, ancor più che gli dèi, non amano essere costrette a ricordare.
La scoperta della caccia, di ciò che la caccia implicava una volta separata da ogni utilità alimentare, e sorpresa nella purezza e durezza del suo gesto, nello scenario sempre ripetuto di un essere umano che insegue e di un animale inseguito, di una freccia che scocca e di una ferita che si apre, quella scoperta doveva assorbire in sé totalmente un essere divino, distoglierlo dalla sua ecumenica sovranità su ogni forma animale e vegetale. Passare dalla massima estensione alla massima intensità. Dalla superficie della terra alla punta della freccia. Questa fu Artemis. Ripiegate le ali, dimesse le vesti sontuose e asiatiche, abbandonata ogni frontale fissità, guizzava fra gli alberi senza schiantare i rametti – e tornava sempre a esercitare quell’attività violenta, che a nulla serviva. Gli dèi non si cibano di sangue, né gli umani hanno mai potuto mangiare o sacrificare le prede di Artemis. La caccia è una tautologia, l’esercizio che afferma se stesso. E, sepolta nel suo passato, incontriamo la negazione: l’animale che nega se stesso. Tautologia, negazione: non è forse il cerchio del pensiero? Da quel cerchio Artemis non volle più uscire, incantata. Ma quel cerchio sfiorava altri cerchi. Talvolta, sfiorandosi, divampavano. Mai fu così acuminato il desiderio erotico come intorno ad Artemis, come in Artemis, che il sesso negava – e aborriva il contatto. Mentre lo negava, lo esaltava. Artemis era uguale al suo gemello Apollo in tutto, eccetto il sesso: «solusque dabat discrimina sexus». Perciò voleva negare il sesso, abolire quell’unico discrimine per rendersi identica al suo unico amante, l’amante innominabile: Apollo – e separata, insieme a lui, da tutto il resto.