Corriere 18.5.16
L’uomo, la caccia, il mito
di Pietro Citati
Il
personaggio principale del Cacciatore Celeste, l’ultimo libro di
Roberto Calasso (Adelphi), è l’uomo della metamorfosi, il quale ospita
in se stesso, allo stato latente, tutte le possibili trasformazioni
dell’uomo e dell’universo. Egli pensa che la letteratura dei tempi
moderni (sebbene essi siano i più metamorfici della storia) abbia
perduto il dono profondo della metamorfosi: questo dono si è rifugiato
nei sogni. Con tutta la propria convinzione e la propria tenacia, con il
suo istinto di dominio, vuole farlo rivivere nei propri libri, che
hanno qualcosa dei suoi grandi sogni. Calasso ha un modello, Ovidio:
«questo provinciale di buona famiglia che venne a Roma in cerca di
fortuna» gli piace moltissimo; egli guarda avidamente il suo capolavoro,
le Metamorfosi , cercando non di imitarlo, ma di riprodurlo. Sia per
lui sia per Ovidio tutto è materiale per la letteratura; e la mitologia
si presenta come un repertorio di varianti, «“una riserva sempre
disponibile di immagini, movenze e combinazioni».
Per narrare la
metamorfosi nel ventunesimo secolo, Calasso possiede moltissime qualità.
In primo luogo, una straordinaria cultura, che non finisce di
meravigliarci: egli è a casa in quasi tutte le epoche, in quasi tutti i
libri, in quasi tutti i miti. In secondo luogo, un acutissimo occhio
analogico, che gli fa scoprire qualsiasi affinità nell’universo dei
libri e della storia. Infine la capacità di raccontare i miti: anzi di
riraccontarli, come Ovidio nel suo grande libro; l’unico modo per
comprenderli e farli propri. Se a volte qualcosa manca nelle fonti, egli
colma questa lacuna con una invenzione: la quale non è mai arbitraria,
ma è la continuazione delle scoperte dei Greci.
Una qualità
Calasso non possiede: la fluidità; gli manca, perché non vuole
possederla. Egli ha l’assoluta coscienza di essere un moderno ; e pensa
che uno scrittore non può abbandonarsi all’onda del racconto che non
finisce mai, come Ovidio. Per lui, come per Nietzsche, il racconto è
morto. La verità non si rivela nella continuità: alla continuità
dobbiamo voltare risolutamente le spalle; e cogliere delle schegge
luminose, che accecano gli occhi e feriscono le mani. L’aveva detto
Platone: «All’uomo la verità è accessibile soltanto per minuscoli
frammenti». Calasso coglie questi «minuscoli frammenti»: spezza la
continuità; ne fa scaturire barlumi, lampi ardenti e pericolosi. Ovidio
possedeva sovranamente l’arte della transizione: essa gli permetteva di
incastrare le migliaia di tessere del suo immenso mosaico. Calasso
ignora la transizione: tra ogni lampo o irruzione della verità sta un
bianco misterioso; il significato di questi bianchi può comprenderlo
soltanto chi fa rinascere nella mente tutto Il Cacciatore Celeste .
Il
libro di Calasso comincia con le origini, o le origini delle origini; e
finisce, o finge di concludersi, con le Enneadi di Plotino e i Misteri
di Eleusi , sebbene ogni pagina getti analogie verso tutti i tempi e
tutte le direzioni, specie verso la cultura vedica. Alle origini,
l’invisibile era visibile. Allora esistevano gli animali e la caccia. Il
Cacciatore Celeste è gremito di animali: iene, leoni, leopardi,
avvoltoi, che lasciano il loro profumo nelle pagine del libro. Gli
animali potevano essere animali, ma anche uomini, dèi, dèmoni, antenati:
non c’erano distinzioni nette tra queste figure. Non esisteva un corpo
umano che inseguiva un corpo animale: ma un essere che inseguiva un
altro essere.
Per i primi cacciatori, l’animale era un altro
essere, né animale né uomo, cacciato da esseri né animali né uomini.
Cacciare era una cosa complicata. Occorreva in primo luogo imitare gli
animali: danzare il passo della pernice, dell’orso, del leopardo, della
gru, dello zibellino. Così artificio essenziale risultava la maschera,
la quale permetteva di separarsi dalla continuità animale. I lupi che si
aggiravano per le foreste erano i primi uomini, che si sentivano così
irreparabilmente uomini da camuffarsi da lupi. Il cacciatore si
preparava alla spedizione come per un ballo: il corpo doveva essere puro
e profumato: a ogni animale da cacciare corrispondeva un diverso
profumo; mentre un divieto impediva i rapporti sessuali prima della
caccia.
Un giorno — un giorno che durò venticinquemila anni — gli
uomini del Paleolitico Superiore cominciarono a disegnare. Non c’era
problema di scelta: gli animali erano l’unico oggetto possibile; la
potenza in movimento, che colpiva e si doveva colpire. L’animale e colui
che lo disegnava appartenevano alla stessa continuità formale. Per
essere efficace, la linea doveva essere giusta . Se non era giusta, la
potenza non appariva. Così coloro che vissero durante il Maddaleniano
sapevano disegnare con stupefacente sicurezza, di rado raggiunta nei
millenni. Ingres li avrebbe ammirati.
La parte più bella del libro
di Calasso è la prima, dedicata ad Artemis. La dea correva come un
maschio, finché sapeva di poter essere vista: ma entrava nell’acqua come
una donna, perché allora nessuno poteva vederla, tranne le sue ancelle e
compagne di caccia. Suscitava, negli uomini, un desiderio erotico
acutissimo — proprio lei che negava il sesso e aborriva il contatto.
Mentre negava il sesso, Artemis lo esaltava. Con lei apparve la purezza:
era hagne , «pura»; soltanto Persefone, in Omero, ebbe il diritto di
portare questo appellativo. Artemis è la dea più prossima a Calasso: sia
come dea della caccia — questo libro colpisce e uccide come le frecce
del cacciatore —: sia come dea della separazione — in fondo allo spirito
di Calasso, c’è un acutissimo desiderio di distanza e di separazione.
La penultima parte del libro è dedicata a Plotino, il quale aveva
seguito la spedizione dell’imperatore Gordiano in Persia, per «acquisire
una conoscenza diretta» della religione e della filosofia iranica e
indiana. Scrivendo le Enneadi , sette secoli dopo Platone, Plotino non
pretendeva di portare qualche novità speculativa. Platone aveva detto
tutto: tutto il possibile: ciò che diceva era vero; lui doveva soltanto
commentarlo ed esplicitarlo, specialmente per ciò che riguardava
l’ineffabile — il Bene e l’Uno.
Così Plotino cominciò «la fuga del
solo verso il solo»; e giunse alla scoperta di una non-conoscenza che
stava immensamente al di sopra della conoscenza: Quello , l’ Uno ; anche
se di quell’Uno nulla possiamo dire, «perché non è essere, non è
sostanza, non è vita». «Ciò che è causa di tutte le cose — egli
aggiungeva — non è alcuna di esse. Non dovrebbe essere chiamato neppure
bene perché lo produce, ma è il bene al di sopra di tutti i beni». Come
nelle Upanishad , il pensiero saliva al di sopra di se stesso, e si
aboliva. Questo culmine tenebroso-luminoso noi lo conosciamo soltanto
nella contemplazione: la meta a cui il libro di Calasso tende senza
dirlo, in un supremo tentativo di abolire se stesso.