Repubblica 17.5.16
Perché il bonus bebè non è un incentivo
di Alessandro Rosina
MAGARI
bastassero le buone intenzioni per risollevare la cronica denatalità
italiana. Per riuscirci serve molto di più, a partire da una potenziata
capacità di lettura della realtà in mutamento, passando per una maggiore
disponibilità a mettere in discussione quello che in passato non ha
funzionato, per arrivare ad una più ampia visione e condivisione
dell’azione politica.
Sabato scorso il ministro Costa,
intervenendo ad un convegno del Forum delle associazioni familiari,
aveva mostrato grande apertura verso il “fattore famiglia”, una misura
ispirata al “quoziente familiare” francese che mira a rendere più equo
il sistema fiscale riducendo il costo dei figli a carico. Il giorno dopo
il ministro Lorenzin ha rilanciato in tutt’altra direzione con il bonus
bebè, presentato come principale soluzione al crac demografico. Il
ministro Padoan, come raccontano le cronache, sembra sia rimasto
tiepido. Palazzo Chigi ha successivamente precisato che il bonus è in
realtà solo una delle misure prese in esame. Come indica anche il
rapporto del think tank Volta, si dovrebbe partire da un organico
ripensamento degli strumenti di welfare.
Questa vicenda, mostra
come il tema demografico sia sentito nella sua urgenza, ma mette anche
in luce tutti i limiti della politica nel dare una risposta all’altezza
della sfida. È giusto preoccuparsi. La popolazione italiana è come un
edificio sul vertice del quale aggiungiamo continuamente nuovi piani,
per il fatto che si vive sempre più a lungo, ma con parte inferiore e
fondamenta sempre più fragili, per l’erosione prodotta dalle nascite. È
però sbagliato trattare i temi demografici con la logica dell’emergenza,
siano essi l’immigrazione, l’invecchiamento o le trasformazioni
familiari. Un figlio, in particolare, è un’assunzione di impegno a lungo
termine. Per mettere in campo politiche efficaci è allora necessario
prima di tutto far chiarezza sui meccanismi che frenano o favoriscono
tale scelta e sulla capacità dei vari strumenti di policy di intervenire
con successo su tali meccanismi.
Questo è ancor più vero oggi.
Nelle società moderne avanzate “l’onere della prova” delle decisioni
riproduttive si è invertito. Se in passato l’atteggiamento di base era
quello di avere figli e per non averne si doveva operare una scelta
esplicita, da qualche decennio la condizione di partenza è invece
l’assenza di figli, che rimane tale se non si attiva una scelta
deliberata sostenuta da condizioni positive. Di conseguenza, se un Paese
vuole ridurre le nascite, non è necessario che disincentivi le persone a
fare figli, è sufficiente non favorire il crearsi e consolidarsi di
condizioni adatte. Viceversa, se si considera auspicabile che la maggior
parte delle persone non rinunci a realizzare il numero di figli
desiderato è necessario mettere in campo azioni ad esplicito e solido
supporto di tutto il processo decisionale. In primo luogo, il desiderio
deve poter trasformarsi in vero progetto di vita. Tale progetto deve poi
poter trovare possibilità di effettiva e concreta realizzazione.
Infine, è necessario che vi sia la ragionevole aspettativa di un
successo nell’esito finale. Tutte queste fasi sono oggi entrate in
crisi. Le difficoltà legate alla continuità di reddito e all’accesso
alla casa hanno fatto crollare la fecondità degli under 30 su valori tra
i più bassi in Europa. L’età tardiva del primo figlio e l’eccesso di
complicazioni nella conciliazione tra famiglia e lavoro frenano poi la
possibilità di andar oltre.
Il bonus bebè non sembra in grado di
intervenire efficacemente su nessuno di questi meccanismi. Per come è
configurato più che favorire la natalità può essere utile come contrasto
al rischio di povertà, particolarmente alto in Italia per le famiglie
con oltre due figli. Indicare obiettivi chiari e misurabili, oltre a dar
conto dell’impatto del bonus precedente prima di rilanciare nella
stessa direzione, aiuterebbe a capire se al di là delle buone intenzioni
c’è davvero un serio impegno della politica a restituire fiducia e
vitalità al Paese.
Alessandro Rosina è docente di Demografia
all’Università Cattolica di Milano e curatore del “ Rapporto giovani
2016” dell’Istituto Toniolo Twitter: @ AleRosina68