Repubblica 16.5.16
Un figlio costa anche da grande
di Chiara Saraceno
UN
FIGLIO costa denaro e tempo, non solo nei primi anni di vita, ma lungo
tutti gli anni della crescita (e in Italia ben oltre), anche se in
diversa combinazione. Se il “costo” in termini di tempo è elevatissimo
nei primi anni di vita per diminuire progressivamente, quello in termini
di denaro invece aumenta con gli anni. Pensare di incoraggiare la
natalità concentrandosi quasi esclusivamente sul sostegno al reddito nei
primi anni di vita, quindi, è un approccio sbagliato. Come emerge
chiaramente dai dati statistici, molte donne non vengono assunte da
datori di lavoro che “temono” una loro eventuale maternità; e molte
madri sono costrette a lasciare il lavoro dopo la nascita di un figlio
(soprattutto se è il secondo o il terzo) perché non riescono a
conciliare le domande di cura dei figli con quelle del lavoro
remunerato.
NON ci riescono in un contesto, come quello italiano,
in cui i servizi per l’infanzia sono scarsi e costosi, pur con forti
differenze territoriali, le scuole a tempo pieno in progressiva
riduzione e distribuite in modo molto disomogeneo sul territorio, le
lunghe vacanze scolastiche richiedono, per essere gestibili, risorse sia
economiche sia di rete famigliare. Per occuparsi del lavoro di cura
troppe madri ( un 20% circa) devono rinunciare in tutto o in parte ad un
reddito proprio, una perdita non compensabile con un bonus bebè per
quanto generoso e i cui effetti sono di lungo periodo, quando non
irreversibili, rendendo quindi più difficoltoso far fronte ai costi
monetari crescenti man mano che i figli crescono. Questi rischi sono
ancora più attuali e diffusi oggi, in una situazione di domanda di
lavoro insufficiente e rapporti di lavoro precari ( che scoraggiano
anche molti padri dal prendersi tempo per condividere la cura con le
madri), specialmente per le donne a bassa istruzione e dei ceti
economicamente più modesti. Aggiungo che l’Italia è uno dei paesi
europei a più alta povertà minorile e questa è concentrata nelle
famiglie con tre o più figli, che sono anche spesso famiglie
monoreddito. L’arrivo di un figlio in più rappresenta un rischio di
povertà nel breve, ma anche medio e lungo periodo non solo per i
genitori, ma anche per i fratelli/ sorelle. Incoraggiare le donne e le
coppie a fare un figlio in più senza mettere in conto sia l’orizzonte
temporale in cui si dispiega la responsabilità del suo mantenimento sia i
rischi in cui incorrono le famiglie nel loro complesso e in particolare
le madri, quindi anche senza predisporre strumenti per farvi fronte, mi
sembra davvero irresponsabile. Non intendo con ciò sostenere che non
occorra fare nulla sul piano del sostegno monetario al costo dei figli.
Al contrario, ritengo che accanto a politiche di sostegno
all’occupazione e di conciliazione lavoro- famiglia, è necessario porre
mano finalmente ad una riforma organica dei trasferimenti per il costo
dei figli, oggi frammentati in una molteplicità di misure, spesso
scoordinate tra loro, quindi meno efficaci, ed eque, di quanto
potrebbero essere a parità di spesa: assegno al nucleo famigliare per
famiglie di lavoratori dipendenti a basso reddito, assegno al terzo
figlio per famiglie a basso reddito ( misurato però con un altro
strumento) con tre figli tutti minori, bonus bebè mensile per bambini
nati o adottati nel triennio 2015- 2018, detrazioni fiscali per figli a
carico ( da cui sono esclusi gli incapienti). C’è chi riesce ad avere
accesso a più di una di queste misure e chi a nessuna, pur essendo a
basso reddito. Invece di aumentare il bonus bebè, o estenderne il
periodo di accesso, sarebbe opportuno unificare queste misure, o al
massimo ridurle a due, da fruire in alternativa (come succede in
Germania): un trasferimento diretto, o assegno per i figli, di importo
crescente con il numero dei figli ed eventualmente decrescente in base
al reddito famigliare, senza vincoli categoriali e, fino almeno alla
maggiore età, una detrazione fiscale equivalente.