lunedì 16 maggio 2016

Corriere 16.5.16
Produttività e demografia le ragioni del nostro ritardo
di Lorenzo Bini Smaghi

Il dato sulla crescita del Prodotto lordo nel primo trimestre di quest’anno conferma la fase di ripresa in atto dell’economia italiana. Conferma, purtroppo, anche l’incapacità di tenere il passo dell’economia europea, che da anni cresce ad un ritmo ben più sostenuto. Nel 2015 il Pil italiano è aumentato dello 0,8%, contro l’1,7% dell’area dell’euro. Le ultime previsioni della Commissione europea indicano per il 2016 un incremento dell’1,1%, contro l’1,6% europeo. È importante capire i motivi di questo divario, per cercare di mettere in atto azioni in grado di recuperare il ritardo accumulato e porre la nostra economia su un sentiero di crescita più sostenibile.
I fattori internazionali, come il calo del prezzo del petrolio o il rallentamento delle economie emergenti, non spiegano una differenza così ampia. Giocano semmai a favore dell’Italia, visto il peso più basso delle esportazioni sul Pil italiano, rispetto ad altri paesi come la Germania. Nemmeno la politica monetaria può essere un fattore discriminante, poiché è uguale per tutta l’area dell’euro, e tende piuttosto a favorire — attraverso i bassi tassi d’interesse — i Paesi ad alto debito. Per quel che riguarda la politica di bilancio, i dati mostrano che nel biennio 2015-2016 essa è stata più espansiva in Italia che negli altri Paesi europei. Il saldo di bilancio primario — ossia al netto degli interessi sul debito — corretto per gli effetti del ciclo economico, mostra che l’Italia ha registrato nel biennio una espansione cumulata pari all’1,3% del Pil, contro lo 0,4% della media dell’area dell’euro (0,9% in Spagna, 0,3% in Germania e 0,1% in Francia). Non è dunque l’austerità impostaci dall’Europa, come spesso si sente dire, a farci crescere di meno.
I motivi sono piuttosto di natura strutturale, e dunque richiedono rimedi strutturali, non di natura ciclica. Se ne possono evidenziare due in particolare. Il primo, più noto, riguarda la produttività, in particolare del lavoro — ossia quanti beni e servizi vengono prodotti in media da un addetto. Nel 2015 la produttività media del lavoro è scesa dello 0,1% in Italia e quest’anno è prevista aumentare dello 0,2%. Negli stessi due anni la produttività media nell’area dell’euro è aumentata dello 0,6% e dello 0,5%, in Germania dello 0,9% e dello 0,6%. I motivi per cui la produttività italiana ristagna, o addirittura cala, da anni — che di fatto significa che un addetto produce oggi meno beni e servizi di 15 anni fa — sono stati analizzati in lungo e in largo. Si tratta di un ritardo accumulato in molti settori, come il basso livello di istruzione dei giovani italiani, le scarse conoscenze linguistiche e nelle materie scientifiche, la formazione professionale limitata, la bassa diffusione di Internet e la scarsa conoscenza delle tecnologie informatiche, il tasso limitato di investimenti in ricerca e sviluppo, la dimensione contenuta delle aziende, le barriere relativamente più elevate alla concorrenza nelle professioni e nel mercato dei beni e dei servizi, la corruzione e la mancanza di meritocrazia nelle selezioni di personale. In tutti gli indicatori utilizzati per misurare questi fattori l’Italia si colloca nel gruppo di coda, anche se in alcuni casi si sono registrati dei passi avanti.
La produttività non sembra essere una priorità per il Paese. Lo conferma il fallimento del negoziato tra le parti sociali sulla riforma delle relazioni industriali e l’assenza di una proposta governativa promessa da mesi per legare le retribuzioni all’andamento della produttività. Il secondo fattore, meno discusso ma sempre più importante nelle economie avanzate, riguarda la demografia. Secondo le statistiche Eurostat, nel 2015 la popolazione si è ridotta dello 0,1% nel 2015 e dovrebbe rimanere costante quest’anno, mentre nell’area dell’euro è aumentata dello 0,3 nel 2015 e dovrebbe crescere dello 0,4% quest’anno. In effetti, se si valuta la performance dei vari paesi in termini di Pil pro capite — ossia di reddito medio per cittadino — e non di Pil totale del Paese, ci si accorge che il divario tra l’Italia e il resto dell’unione è contenuto (0,9% contro 1,4% nel 2015) e tende a ridursi (1,1% contro 1,2% previsti nel 2016). Emerge inoltre che il reddito medio è aumentato a un ritmo simile a quello dei tedeschi già lo scorso anno (0,9% contro 1% nel 2015) e dovrebbe addirittura fare meglio nel 2016 (1,1% contro lo 0,7%).
Per un Paese che ha un debito pubblico elevato ed è stato colpito più duramente dalla crisi, non conta però solo l’evoluzione del reddito medio dei suoi cittadini ma quello dell’intero Paese. Non è pensabile conseguire una crescita sostenibile con una popolazione costante o in calo, soprattutto quando la produttività ristagna. Altri Paesi sono riusciti ad invertire la tendenza. In Germania, ad esempio, i timori di riduzione della popolazione dello scorso decennio sono stati fugati, grazie ad una combinazione di interventi mirati ad incentivare la natalità e a favorire l’immigrazione di giovani facilmente inseribili nel mercato del lavoro.
Anche in questo settore l’Italia è in ritardo. Rischia di essere particolarmente penalizzante una politica di immigrazione di tipo difensivo, mirata prevalentemente a contenere i flussi e attuata in modo indiscriminato, anche nei confronti di chi vuole venire a studiare e magari poi lavorare nel nostro Paese e si vede costretto ad attese estenuanti per un visto che spesso gli viene negato senza motivi. È ancor più dannosa una politica di accoglienza basata principalmente sull’assistenzialismo piuttosto che sulla responsabilizzazione e misure attive per l’inserimento sul mercato del lavoro. A pagare i costi di questo ritardo sono, in fin dei conti, soprattutto i contribuenti italiani.