Repubblica 14.5.16
Quei cervelli sotto il monte tra Jules Verne e il Big Bang
Nei laboratori del Gran Sasso dove lavorano i ricercatori italiani che il mondo ci invidia
di Maurizio Crosetti
ASSERGI
(LÕAQUILA) ZITTI tutti: qui si cerca la materia oscura immersi nel
silenzio cosmico. E i cellulari non prendono. E fa un freddo boia. E si
incontrano solo cervelloni. Ma per una volta i cervelloni non scappano,
anzi le grandi università del mondo li pagano per fare ricerca qui, in
casa loro, in casa nostra, sotto un chilometro e mezzo di roccia, nel
più grande laboratorio sotterraneo del pianeta. A un tiro di schioppo da
una città distrutta da un terremoto e che nessuno ancora sa, o vuole,
ricostruire davvero.
Elmetto di plastica in testa, si entra dal
tunnel dell’Aquila- Teramo sotto il massiccio, si passa come palline da
flipper attraverso giganteschi tubi, si scivola nel labirinto annodato
che collega tre enormi sale col soffitto alto come Notre Dame, e in
fondo proprio di questo si tratta, una silenziosa cattedrale della
scienza.
Mille ricercatori di 32 Paesi spiano l’universo e le sue
origini, cercando di capire come sia nato e come sia fatto: il 95 per
cento ancora ci sfugge, ma il 5 per cento che possediamo è la storia
dell’umanità, è il corpo di un bambino, di un fiore, di un ramarro, di
una galassia. Tutto, eppure quasi niente.
Si potrebbe pensare che
le migliori menti di svariate generazioni siano fuggite dopo la laurea,
invece non è proprio così. I più bravi studiano in Italia e poi
all’estero, ma un bel giorno tornano perché i laboratori del Gran Sasso
non li ha nessuno.
Tornano anche dalla Columbia University, come
il professor Marcello Messina, napoletano, 44 anni: gli americani lo
hanno incaricato di curare la messa in opera di una cosa che si chiama
Xenon1T, esperimento che andrà a caccia della “dark matter”, la materia
oscura.
Potevano stupirci con effetti speciali, questi: tre
tonnellate e mezzo di Xenon liquido (costa 1200 dollari al chilo) dentro
una specie di condensatore gigante. Il professore apre la porta del
silos, ci fa entrare, saremo tra gli ultimi a poter guardare dentro
perché tra poco si comincia.
«Sulla ricerca si raccontano troppe
bugie, noi italiani abbiamo insegnato agli Stati Uniti come si fa un
istituto di fisica, i cinesi ci copiano, siamo un’eccellenza assoluta.
Però siamo provinciali e amiamo farci del male, obbligando un
ricercatore a vivere con 1.200 euro al mese. Smettiamola di trattarci
così: pure all’estero fanno carriera gli amici degli amici, ma qui la
proporzione è esagerata».
Il professore ha occhi profondi da
divoratore di libri e monitor, però giura che la fisica non è una cosa
difficile: «Molto peggio il latino, mi creda ». Si vede che è pieno di
passione, e la spiega con un paio di domande: «Lei pensa di riuscire a
sottrarsi al fascino di una teoria che può descrivere tutto l’universo?
Pensa di non essere conquistato dalla luce che si piega alla curvatura
dello spazio tempo?» Siamo sotto terra per proteggere gli esperimenti
dalla pioggia delle radiazioni stellari, un po’ Jules Verne, un po’ topi
dei cartoni. Qui da trent’anni si mastica fisica astroparticellare,
neppure un’ora di vacanza da Capodanno a San Silvestro.
E se un
giorno potremo sapere da dove veniamo, forse dovremo ringraziare anche
Lucia. Ha 34 anni, Lucia Canonica, una laurea a Genova e poi l’incarico
dal Massachusetts Institute of Technology di Boston per partecipare al
progetto Cuore. Si tratta del neutrino, “la cosa più vicina al niente
che esista”.
«Non sappiamo molto della sua massa, della sua natura, di quanto pesi».
Anche
Lucia ha quegli occhi da libri, e il suo lavoro ha alleati pesantissimi
e antichi di duemila anni. «Questi lingotti di piombo risalgono
all’epoca romana» dice, indicando il box dove sono stati messi in fila.
«Li trovò per caso un subacqueo al largo della Sardegna, su una nave
Romana affondata. In due millenni hanno perso la loro radioattività,
dunque sono perfetti per schermare il nostro esperimento che avverrà
dentro torri di cristalli di ossido di tellurio ».
Cristalli,
tellurio, antichi Romani. Forse, a proposito del fascino ha ragione il
professore: qui sotto ce ne sono scorte planetarie. «Abbiamo ripulito i
lingotti e poi li abbiamo fusi nelle forme circolari che ci servivano,
si tratta di creare uno schermo attorno al tellurio».
Lucia,
quanto guadagna? «Millequattro e cinquanta, non tanto, ma non è questo
il punto. In Italia manca la cultura della ricerca, si pensa sia una
cosa da lasciare ai pazzi, ai cervelloni o ai disadattati. Se fai il
ricercatore non vuol dire che sei bravo, ma che non sei riuscito a
trovare un lavoro migliore. Io sono a posto per almeno cinque anni, ma
un giorno potrei anche insegnare matematica alle medie, e lo dico col
massimo rispetto ».
Sbirciare nell’universo, dal Big Bang a tre
minuti fa, costa 6 milioni di euro l’anno. I Laboratori del Gran Sasso
fanno parte dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare, dunque sono un
ente pubblico di ricerca.
Tra i giovani con un contratto di
ricercatore a tempo determinato c’è anche Luca Pattavina, romano con
laurea milanese, Erasmus a Parigi, dottorato a Lione, da quattro anni
sotto le pietre del Gran Sasso. Pure lui non supera i 1.500 euro al
mese, se fosse rimasto all’estero sarebbero come minimo 3mila.
Materia
oscura, veramente. E allora, Luca, perché? «Perché andarmene sarebbe un
compromesso al ribasso: nel mio campo di studi, l’Italia è leader
mondiale e altrove imparerei sicuramente meno. La paga è bassa, le
opportunità di ricerca altissime: non esiste in nessun angolo del
pianeta un luogo come questo».
Sul pannello che Luca ha di fronte,
pieno di misteriosi pulsanti, c’è il disegno di un uomo buffo che tende
un arco. «Perché l’esperimento che stiamo preparando si chiama Cupid ed
è strettamente collegato a Cuore».Ancora neutrini. E quando si parla di
esperimento, non bisogna immaginare gli alambicchi e i ricordi del
piccolo chimico, ma un cantiere che rimane aperto dieci, quindici anni,
per decine di milioni di euro e con l’attesa di eventi che possono
verificarsi una volta ogni biennio o anche meno, oppure mai. E quando
non si trova quello che si cercava, quando una teoria si smonta o si
sgretola, non significa il fallimento: una risposta può cominciare anche
da quello che una cosa non è. Si va per esclusione, e la caccia
continua altrove. Luca Pattavina tende l’arco e scocca la freccia.
«Il
mio sogno? Poter dire un giorno: ho scoperto il decadimento doppio beta
senza emissione di neutrini». Cosa sia, lui ce l’ha pure mostrato ma è
stato come dirlo a un bambino di otto anni, e nemmeno dei più svegli.
«Tranquillo, glielo rispiego a Stoccolma quando ci vediamo per il
Nobel».