sabato 14 maggio 2016

Repubblica 14.5.16
Artematica
La bellezza segreta dei numeri tra le note di Bach e i canti di Leopardi
Grandi protagoniste al Salone del libro, le scienze possono suscitare in noi un piacere estetico. Come insegnano alcuni poeti, pittori, musicisti
di Piergiorgio Odifreddi

Un poeta come Giacomo Leopardi ha scritto molti canti alla Luna ma nessun inno al Sole, perché trovava più bellezza nel colore soffuso e nascosto della notte che nello splendore accecante e palese del giorno. Un pittore come Claude Monet ha dipinto ninfee in uno stagno invece che scene di guerra su un campo di battaglia, perché era più toccato dalle presenze silenziose dei fiori che dagli affanni muscolari degli uomini. Un avventuriero come Pierre Loti ha perso la testa per una turca di nome Aziyadé e non per un’anonima ballerina francese di can-can, perché c’è più fascino in occhi celati dietro una grata che in gambe nude agitate su un palcoscenico. Un eroe come Ulisse ha passato sette anni su Ogigia invece di tornare a casa a Itaca,
perché la presenza di una ninfa velata lo turbava più dell’assenza di una moglie svelata. La matematica ha più le caratteristiche della pallida luce lunare, delle ninfee silenziose nella bruma, di uno sguardo femminile appena intravisto o della forma di un corpo suggerita da un velo, che non della luce solare, del fragore di una battaglia, di un ballo sguaiato o di un volto scoperto. Per accorgersi della sua bellezza bisogna allertare i sensi e la mente ed essere pronti a riconoscerla negli indizi e nei cenni che essa dà di sé, senza sperare di incontrarla per caso e di inciamparci dentro facilmente. Ma così facendo la si trova profusa nella natura e nell’arte, oltre che naturalmente nella matematica stessa.
Per quanto riguarda la natura, bisogna anzitutto sfatare uno sciocco mito romantico diffuso da William Blake, che nella poesia Sfottete, sfottete del 1796 accusava Voltaire e Rousseau di gettare sabbia intellettuale contro il vento dello spirito. E come esempio di questa sabbia citava esplicitamente «gli atomi di Democrito e le particelle di luce di Newton». Blake pensava che la comprensione dei meccanismi matematici di ciò che ci circonda dissolvesse la poesia dalla visione del mondo, ma non capiva che tutto ciò che vede il poeta continua a vederlo anche il matematico. Leopardi era invece perfettamente conscio di questa ovvietà. Scrivere il Canto notturno di un pastore errante dell’Asia o
Alla Luna non gli impedì di capire che ci sono più cose in cielo e in Terra di quante ne sogni la poesia, e di abbinare a quei componimenti una Storia dell’astronomia dalla sua origine fino all’anno 1811.
Che cosa vede della Luna la matematica, che la poesia non vede? Ad esempio, un fatto scoperto nel 1666 dal Newton odiato da Blake: che il nostro satellite è in perenne caduta verso la Terra, e cade in un minuto nel cielo della stessa distanza caduta da una mela in un secondo sulla Terra. Se non ci precipita addosso, è solo perché il principio di inerzia tende costantemente a farla fuggire per la tangente, mentre l’attrazione gravitazionale della Terra continua perennemente a catturarla e le impedisce la fuga. Tra l’altro, non c’è meno poesia nel fatto che la forza che tiene la Luna in orbita è la stessa che fa cadere le mele, di quanto ce ne sia nel paragone tra il suo vagabondare per i cieli a la vita di un pastore errante nei campi (sempre per inciso, “errante” è il significato della parola greca planetes, “pianeta”, come ben sapeva Leopardi).
Non sono solo certi letterati a pensarla come Blake, ma anche certi artisti. Michelangelo, ad esempio, che per sminuire gli aspetti geometrici dell’arte diceva che «l’artista deve avere il compasso negli occhi»: nel senso che non deve far calcoli matematici, ma vedere istintivamente le proporzioni estetiche. Quando furono tolte le impalcature della prima metà del soffitto della Cappella Sistina, si accorse però che il suo compasso oculare aveva fatto cilecca e le figure risultavano troppo piccole. Nella seconda metà fu costretto a ingrandirle gradualmente, fino a raggiungere le proporzioni corrette, ma imparò la lezione. E quando una ventina d’anni dopo dovette dipingere il Giudizio Universale, pianificò col compasso le figure in alto in modo che fossero molto più grandi di quelle in basso.
Michelangelo aveva fatto un tipico errore di “anamorfosi”, una tecnica scoperta da Leonardo che costituisce un complemento della prospettiva: mentre questa insegna come disegnare le figure correttamente in modo da farle apparire come le vede l’occhio in situazioni usuali, quella insegna come disegnarle deformate in modo che l’occhio le percepisca corrette se esposte in situazioni inusuali. Le anamorfosi sono particolari esempi di bellezza matematica nell’arte, come lo sono le fughe musicali barocche: anche le loro proporzioni devono essere calcolate esattamente in modo che le voci si amalgamino l’una con l’altra in maniera armoniosa. Non è un caso che Johann Sebastian Bach avesse una particolare sensibilità matematica che emergeva nella struttura geometrica delle sue opere, in particolare, e soggiaceva all’intero contrappunto dell’epoca, in generale.
Che la bellezza matematica possa affiorare nella descrizione scientifica o artistica del mondo probabilmente lo si può accettare di buon grado, pur intuendo che i dettagli rimarranno nascosti in maniera misteriosa alla vista di chi non è del mestiere. Più sorprendente è il fatto che la bellezza si ritrova anche all’interno della matematica stessa. Per fare un esempio semplice ma non banale, nel terzo secolo della nostra era Diofanto d’Alessandria pubblicò un trattato di Aritmetica, in cui annotò una curiosità relativa al numero 65. Da un lato, è il prodotto di 5 e 13, che sono entrambi somme di due quadrati: rispettivamente, 1 più 4 e 4 più 9. Dall’altro lato, anche 65 stesso è somma di due quadrati, addirittura in due modi diversi: 1 più 64, oppure 16 più 49.
La cosa rimase appunto una superficiale curiosità per più di un millennio, fino a quando nel 1572 Rafael Bombelli pubblicò l’Algebra e introdusse quelli che lui chiamò “numeri complessi”, e Cartesio “numeri immaginari”: nomi giustificati dal fat- to che, ad esempio, possono avere segno “meno” quando li si eleva al quadrato, contro la regola dei numeri reali che “più per più fa più”, ma anche “meno per meno fa più”. Una volta introdotti i numeri complessi o immaginari, si capì la ragione profonda della proprietà del numero 65: le lunghezze dei numeri complessi si ottengono mediante la somma dei quadrati delle loro componenti, e la lunghezza di un prodotto come 65 è uguale al prodotto delle lunghezze dei suoi fattori 5 e 13.
Connessioni di questo tipo sono ubique nella matematica, e hanno la stessa natura misteriosa delle alchimie delle parole dei poeti, delle convergenze dei punti di vista degli artisti o delle confluenze di voci nelle composizioni dei musicisti. In queste misteriose connessioni si cela la molteplice, e allo stesso tempo unica, bellezza delle varie discipline.
L’autore dopodomani alle 16, al Salone del libro ( Sala Azzurra) terrà una lectio dal titolo La matematica araba.