Repubblica 13.5.16
Massimo Cacciari.
“Questo è un paese ammalato di centralismo i primi cittadini sono deboli ma questo appello è patetico e in ritardo”
“Solo i pazzi amministrano i comuni anche io ho subito un martirio”
intervista di Paolo Berizzi
MILANO. Massimo Cacciari, che cosa pensa dell’appello dei sindaci?
«Che è patetico».
Addirittura. Perché?
«Svegliarsi
ora, dopo vent’anni, vent’anni di progressivo e sistematico
smantellamento della figura dei sindaci da parte del centralismo
governativo, vent’anni di degenerazione, non ha senso. È, ripeto,
patetico».
Non dovrebbe valere che sbaglia solo chi non fa, chi non si muove?
«Fare
così è come non fare. Mi spiego. Tra i firmatari dell’appello ci sono
sindaci – gente che è stata anche al governo, tipo Bianco - che questa
storia del depotenziamento degli amministratori locali, della loro
umiliazione, la conoscono benissimo. Da quasi vent’anni. Era il ’99
quando fondammo l’associazione “Le cento città”: io sindaco di Venezia,
Bianco, Rutelli, Bassolino e altri. Chiedevamo una riforma in senso
autonomistico e federalistico. E invece…».
Invece?
«Non è
servito a niente. Anzi sì, a una cosa: a far fare carriera a Rutelli e a
Bianco. Che adesso firma questo inutile appello rivolto al presidente
della Repubblica… Mah…».
Perché non portò a nulla il fronte dei sindaci autonomisti?
«Questo
paese è malato di centralismo. Irrimediabilmente. Più è forte la
leadership di chi è al governo, più diventa difficile costruire una
classe politica locale. E il ruolo degli amministratori sul territorio
si indebolisce, l’effetto è sotto gli occhi di tutti».
Fu così anche allora?
«Sì.
La nostra spinta fu stroncata da un’ondata reazionaria neocentralista,
un moto trasversale, centrodestra e centrosinistra, Amato, D’Alema,
Berlusconi… La repressione ordinata da Roma montò, e si abbatté sui
Comuni e chi li gestiva».
Con quali conseguenze?
«Sottrazione
dei poteri, stretta sui finanziamenti, riduzione di trasferimenti, un
martirio crescente di decisioni che spostavano nelle Regioni il ceto
politico centrale. E addio speranze di autonomia…».
Ma poi è arrivata la legge per l’elezione diretta dei sindaci.
«Un
paradosso. Dai al sindaco la possibilità di essere eletto direttamente,
di essere investito dal popolo, e allo stesso tempo gli togli i poteri e
le risorse. Lo depotenzi in tutto e per tutto. È uno dei tanti pasticci
all’italiana».
Scrivono i sindaci nell’appello che i primi cittadini sono «un bene prezioso per la democrazia».
«Certo
che lo sono, ma in un Paese malato di centralismo che cosa possono
fare? Giro l’Italia, parlo coi sindaci, vengono fuori storie di assoluta
miseria: non ci sono appelli che tengano. Finché c’è questa cultura
centralista, contraria a ogni modernizzazione, i sindaci non vanno da
nessuna parte. È questa la riflessione da fare».
Quanto pesano le vicende giudiziarie che stanno colpendo molti sindaci?
«Il
sindaco è un parafulmine universale. È in cima alla casa, se arriva un
fulmine se lo becca lui. Dopodiché ci sono sindaci più bravi e meno
bravi. Ma è il sistema che non funziona. Lo dico da 20 anni: bisogna
rivedere tutte le leggi dell’amministrazione. Il sindaco è anche
responsabile della salute pubblica e della protezione civile? Bene. Ma
se non può fare niente perché non ha risorse...».
Che cosa significa fare il sindaco oggi?
«Bisogna essere dei pazzi».
Lei lo è stato a Venezia dal 93 al 2000 e dal 2005 al 2010. Che cosa è cambiato da allora?
«È
stato un crescendo. Un martirio senza fine. Già ai miei tempi era così:
se non ti mettono in condizione di operare adeguatamente, hai voglia a
fare gli appelli…».