Repubblica 13.5.16
Manifesto contro le donne fatte in serie
Intervista a Louise O’Neill Il suo romanzo sulle geishe-cloni denuncia lo sfruttamento del corpo e dell’anima femminili
di Raffaella De Santis
Sii
carina, sii buona: è il mantra che ricorre in un romanzo scritto da
Louise O’ Neill, trentenne autrice irlandese che in “Solo per sempre
tua” (Il Castoro, nella nuova collana HotSpot) ha immaginato un mondo
futuro popolato di femmine progettate grazie all’ingegneria genetica per
essere al servizio dei maschi. Queste geishe del nuovo millennio non
devono creare problemi. Vengono allevate volutamente analfabete,
l’importante è che siano attraenti e fertili. Belle, spensierate,
divertenti, tutte
uguali, dunque alla fine parecchio noiose. Peso
forma intorno ai 50 kg, capelli lunghi e setosi, pelli trasparenti,
occhi da gatte. Tali e quali a tanti cloni che vanno per la maggiore.
Sono state educate al culto del corpo più che della mente. Le più
fortunate diventeranno mogli, quelle di seconda scelta dovranno
accontentarsi di essere concubine. Mentre quelle scartate finiranno
nella categoria delle donne caste, con il compito di sorveglianti delle
giovani ischeletrite pin up. Nella società della cosmesi, il cibo è il
grande nemico. Louise O’ Neill sembra aver shekerato il Mondo nuovo di
Aldous Huxley con Hunger Games inventandosi una distopia a tematica
femminista. Louise sa bene di cosa parla, visto che per anni ha sofferto
di anoressia e bulimia.
Quando ha capito che poteva farcela?
«A
ventun anni sono stata ricoverata in ospedale a causa dei miei disturbi
alimentari. Ero anoressica e bulimica. Ma la mia presa di coscienza
risale a tempo prima, quando a quindici anni per la prima volta dissi:
sono femminista».
Che cosa era successo?
«Una mia insegnante
mi aveva regalato un libro di Margaret Atwood che parla della
sottomissione della donna, Il racconto dell’ancella. È stato il mio
viatico al femminismo. Sono cresciuta nella città irlandese di Cork.
Fino a quel momento ero stata un’adolescente come tante, ma quel libro è
stato un talismano. Poi un viaggio mi ha aperto gli occhi».
Dove?
«In
India, a Calcutta, a lavorare come volontaria in un orfanotrofio. Lì mi
sono subito resa conto che la maggior parte degli orfani erano donne,
bambine abbandonate dalle famiglie. Nello stesso periodo ho letto May
you the be mother of a hundred sons di Elisabeth Bumiller. Illuminante».
Lei è giovane, lontana dalle battaglie femministe del passato. Cosa è cambiato oggi?
«Credevamo
di essere entrati ormai in un’era post-femminista. Tra il 2000 e il
2010 dichiararsi femminista non era assolutamente cool. Ora invece è
tornato di nuovo in voga, perfino tra le popstar».
E a lei disturba? La scritta “feminist” durante un concerto di Beyoncé ha scatenato molte polemiche.
«Sono
cresciuta ascoltando e riascoltando fino a consumarlo l’album Live
Through This della rock band The Hole, in cui cantava Courtney Love. Era
un disco sulle donne. Ma quando ero una teenager nessuno parlava più di
femminismo, dunque se oggi lo fanno Jennifer Lawrence o Emma Watson,
ben vengano. La mia idea è aperta, inclusiva».
Che importanza ha il corpo in tutto questo? Nella sua vita?
«La
mia anoressia è cominciata quando avevo quindici anni. Più tardi ho
lavorato a New York al settimanale Elle. È lì che ho scoperto che tra le
donne asiatiche andava di moda ricorrere alla chirurgia plastica per
eliminare le differenze di razza ed omologarsi al modello di bellezza
occidentale. Ho iniziato allora a domandarmi perché siamo così
ossessionati dal corpo femminile».
Perché? Oggi sa dare una
risposta… «C’è una pressione che spinge le donne a conformarsi con
un’idea astratta di perfezione. Da qui è scaturito il desiderio di
descrivere un mondo in cui conta solo essere belle e soddisfare i
desideri maschili. La nostra società è ancora intrinsecamente
patriarcale».
Non crede che anche gli uomini siano vittime di pressioni sociali?
«Noi
dobbiamo essere magre, desiderabili e, per non deluderli, anche buone
madri. Insomma, sexy e affidabili. Gli uomini devono guadagnare tanti
soldi e sono costretti a mostrarsi sempre abbastanza machi ( ndr, ride) e
possibilmente a nascondere le lacrime».
Che tipo di adolescente è stata?
«Volevo essere cool, una tipa easy going di quelle che non stanno lì a reclamare affetto. Fingevo».
È vero che ha studiato in una scuola per sole donne?
«Fino
ai quindici anni. Era un ambiente che incoraggiava la competizione.
Essere femminista per me significa invece non aderire a modelli
preconfezionati, fregarmene».
Le stanno più simpatiche le cattive ragazze?
«Mi
piacciono le ragazze libere di essere quello che sono. In genere siamo
incasellate o come “brave ragazze” o come bad girls. Costrette a
scegliere da che parte stare. E se siamo un po’ troppo emotive ci danno
subito delle isteriche. Non accade solo nelle distopie, ma tutti i
giorni».