Repubblica 13.5.16
I superstiti dell’apocalisse
di Ezio Mauro
È
 possibile provare a ragionare sul sistema politico italiano e i suoi 
rapporti con la giustizia senza scadere nel derby quotidiano e 
miserabile tra Pd e Cinque Stelle sugli indagati, le sospensioni dagli 
incarichi e le dimissioni? Diciamo subito che quel derby il Pd lo ha 
perso platealmente, perché il numero di amministratori di quel partito 
coinvolti in inchieste giudiziarie dovrebbe da solo far capire 
all’intero gruppo dirigente che c’è nella principale forza della 
sinistra un problema di selezione delle cosiddette élite grande come una
 casa, secondo solo al problema della nuova permeabilità clamorosa di 
quel mondo alla corruzione. I grillini, che pensavano di fischiare 
comodamente dagli spalti nella partita tra la politica e la 
magistratura, si trovano improvvisamente in campo mentre i fischi oggi 
sono per loro, impreparati e incapaci di gestire l’incoerenza patente 
tra i doveri pretesi dagli altri e le indulgenze domestiche. Ecco perché
 l’avviso di garanzia al sindaco di Parma Pizzarotti, dopo i casi di 
Livorno e di Quarto, offre l’occasione per una riflessione fuori da ogni
 polemica sul triangolo tra la legalità, la politica e l’antipolitica.
È
 UN triangolo che dovrebbe avere una base comune, e condivisa: la 
legalità. In un sistema democratico trasparente nelle procedure e nei 
controlli, la legalità dovrebbe essere una condizione preliminare 
dell’agire politico, insieme con l’onestà dei suoi attori. In questo 
Paese si è trasformata invece in un vero e proprio programma politico da
 parte del movimento grillino, assorbendone ogni identità, proprio a 
causa delle forme di illegalità diffusa che le inchieste giudiziarie 
hanno portato alla luce nei partiti tradizionali insieme con la 
disonestà di molti amministratori pubblici, generosamente distribuiti in
 tutto lo schieramento partitico. Questo fa sì che il triangolo entri in
 crisi: da un lato, la politica dei partiti si chiude sulla difensiva, 
maledice a bassa voce i magistrati ritenendoli intrusi abusivi, 
incredibilmente incapace di rispondere alla sfida del malcostume 
corruttivo con misure interne (forte pulizia, selezione rigorosa, 
guardia alta) e con provvedimenti di legge che raccolgano l’allarme 
sociale per la diffusione di pratiche illegali e stabiliscano subito 
contromisure efficaci. Dall’altro lato, l’antipolitica delega ai 
magistrati (che non devono e non vogliono esercitarlo) il compito di 
realizzare quel rinnovamento del sistema che è incapace di attuare in 
proprio. In più tende a identificarsi esclusivamente con la legalità 
considerandola un suo schema privato e non una pre-condizione di buon 
funzionamento dell’intero sistema, da rivendicare e pretendere per 
tutti. Il risultato è la spoliazione di ogni altro carattere “politico”,
 come se la legalità fosse un programma, un progetto, una politica, e 
non il metodo indispensabile di ogni buon amministratore.
Si 
potrebbe dire che la bandiera dell’onestà rappresenta comunque un passo 
avanti e una buona garanzia di base, nelle attuali condizioni del Paese.
 In realtà è una condizione indispensabile, ma non sufficiente, in 
quanto rischia di ridurre la politica ad una sola dimensione, di non 
chiederle altro, di accontentarsi di ciò che è già dovuto ai cittadini e
 alla comunità che si governa. La modernità, insieme con la 
costituzionalizzazione dell’intero universo politico-culturale nei Paesi
 occidentali aveva superato la concezione della politica come scontro 
tra Bene e Male, usandola anzi come strumento di neutralizzazione dei 
conflitti. Oggi si rischia una neutralizzazione della politica perché il
 sistema viene additato dai nuovi populismi come interamente colpevole, 
completamente colluso, totalmente complice e dunque definitivamente 
perduto. Non resta che aspettare l’ora “x” in cui “Dio sputerà sulla 
candela” e si spegnerà la luce su questa Seconda Repubblica, in attesa 
dell’avvento politico del Redentore.
Ovviamente è uno schema che 
getta a mare (insieme con le responsabilità dei corrotti e con 
l’incapacità dei partiti storici di reagire all’ondata di corruzione che
 li sommerge, dopo aver sradicato il sistema) anche le speranze nella 
democrazia, la fiducia nelle sue risorse, la capacità soprattutto di 
distinguere e di graduare i giudizi, che dovrebbe essere il compito di 
chi fa politica, oltre che di chi fa informazione. Siamo ormai al fascio
 di ogni erba, purché sia o sembri erba cattiva: e se un po’ di grano 
finisce in mezzo al loglio non importa, si fa buon peso. Lo prova il 
turbine mediatico di dichiarazioni che ha inseguito l’avviso di garanzia
 per un possibile abuso d’ufficio in una nomina al teatro al sindaco di 
Parma Pizzarotti, a cui si fa pagare tutto il conto del banchetto 
polemico imbastito per mesi su ogni apertura d’inchiesta e su ogni 
arresto, quasi senza distinzione. Seguono, da parte dei Cinque Stelle, 
dichiarazioni imbarazzate da vecchi sottosegretari democristiani, per 
prendere tempo nell’incapacità di garantire in proprio ciò che si 
pretende meccanicamente da ogni indagato degli altri partiti.
Tutto
 questo è inevitabile quando si scommette sulla crisi del sistema a fini
 di profitto politico: che succede quando la crisi coinvolge (sia pure 
in minima parte) chi la alimenta, soffiando sul peggior fuoco con quella
 che Croce chiamava la “feroce gioia” contro le istituzioni? Qual è il 
segno culturale che questo atteggiamento porta nelle istituzioni, e nel 
rapporto tra le istituzioni e i cittadini, già consumato dalla crisi di 
legalità che rischia ogni giorno di più di diventare crisi di 
legittimità? Cioran definisce il reazionario come «un profittatore del 
terribile, il cui pensiero irrigidito per calcolo calunnia il tempo». 
Certamente questa scommessa sul peggio avviene in un luogo politico che 
non appartiene alla storia della sinistra anche se ne mima i linguaggi e
 i codici, raschiandone efficacemente l’elettorato. Non c’è infatti 
nessuna rappresentanza sociale di interessi, nessuna tutela di diritti, 
nessuna attenzione di classe ai più deboli, nessuna costruzione 
culturale in questa delega della politica al disvelamento del malaffare 
altrui, che annulla ogni soggettività e qualsiasi autonomia 
dell’antipolitica, ridotta appunto ad accontentarsi di essere “anti”.
Tutto
 si tiene in questo mondo chiuso della diversità che si mangia la 
politica: la cabala informatica spacciata come trasparenza, l’idolo blog
 venduto come partecipazione diffusa, il rifiuto degli “altri”, anche 
quando propongono una buona legge. Com’è evidente, in questo schema il 
problema democratico non è la radicalità delle accuse che vengono 
rivolte al sistema dei partiti, e ancor più ai corrotti, che in alcuni 
casi meriterebbero giudizi ancora più severi: il problema è il 
sentimento di “alterità”, che consente ai Cinque Stelle di vivere in un 
immaginario altrove dove non sono permesse contaminazioni, accordi, 
concorsi nelle decisioni utili al Paese e condivisioni di 
responsabilità, ma conta solo marcare la diversità sperando in questo 
modo di ereditare il sistema. Ereditieri del collasso del sistema, più 
che soggetti attivi del cambiamento: è la riduzione della politica alla 
sola dimensione di denuncia, tribunizia, nel senso degli antichi Tribuni
 che parlavano a nome di tutto il popolo, apostrofando il potere. Mentre
 nella concezione liberale dello Stato moderno il fondamento morale 
pubblico non risiede nel sentimento etico soggettivo (naturalmente 
necessario) ma nel rispetto di regole e procedure stabilite per tutti 
nell’interesse di tutti.
Distinguere (perché non è vero che “così 
fan tutti”), pretendere il rispetto della legge, lavorare perché il 
sistema politico salvi se stesso rientrando nel rispetto della legalità,
 invece di scommettere sul suo affondamento. Rispettare le istituzioni 
anche quando l’offerta politica è modesta e la disaffezione allo Stato è
 alta. I Cinque Stelle dovrebbero capire che pagano oggi le loro 
contraddizioni proprio perché non hanno fatto questa scelta di 
responsabilità politica, che non comporta alcuna rinuncia alla 
radicalità della loro opposizione e della loro denuncia, ma la 
condivisione di un destino democratico del sistema, che dovrebbe 
interessare a tutti gli attori, di maggioranza e di opposizione. 
L’alternativa è continuare a vivere nel presunto “altrove” aspettando 
l’Apocalisse prossima ventura, per delegarle la cancellazione del 
sistema invece di usare la politica per cambiarlo. Solo che l’Apocalisse
 è il libro “di coloro che si pensano come superstiti” e come tale è il 
rifiuto della politica, la rinuncia al cambiamento, un gesto di 
superbia. E poi, cosa succede quando i superstiti sono coinvolti?
 
