Repubblica 13.5.16
Il film italiano dal libro di Gramellini apre la “Quinzaine” tra gli applausi
Cannes sogna
E alla fine Marco Bellocchio lascia andare i suoi fantasmi
di Emiliano Morreale
CANNES
IN MOLTI si sono chiesti cosa avesse Marco Bellocchio in comune con il
bestseller di Massimo Gramellini Fai bei sogni, un milione e mezzo di
copie vendute. Il regista dei Pugni in tasca e dell’Ora di religione
alle prese con un romanzo autobiografico, tendente al lirico? Ma, pur
restando in gran parte fedele al libro, Bellocchio ha fatto un film
personalissimo, anzi un’ennesima esplorazione delle proprie ossessioni e
dei propri fantasmi. Alla Quinzaine è stato accolto tra gli applausi.
Dopo
la morte della madre, il piccolo Massimo cresce davanti alla tv
scegliendo come genio protettore il fantasma di Belfagor. Questa prima
mezz’ora di film, molto bella, racconta non solo un lutto individuale,
ma anche la sua costruzione sociale, ed è pieno di pranzi, case, preti
tutti tipicamente “bellocchiani”. Però è soprattutto una specie di
viaggio, raccontato come un horror senza orrori, nelle immagini e nei
suoni di un’epoca (l’epoca nella Rai di Bernabei, verrebbe da dire):
Modugno, la Carrà, Gianni Morandi, la coccoina, Il tuffatore Dibiasi, il
Torino di Pulici e Graziani.
La linea horror continuerà ad
affiorare fino alla fine, con i fotogrammi di Nosferatu che compaiono in
una discoteca, o la villa nel bosco prima che venga svelato il segreto
sulla madre, che il protagonista non ha mai voluto sapere. A
quest’atmosfera contribuiscono le musiche potenti di Carlo Crivelli,
mentre curiosamente la fotografia di Daniele Ciprì risente della moda di
usare toni freddi e grigiastri per i film ambientati negli anni 70.
Il
protagonista di Fai bei sogni è un ribelle: ribelle all’ingiustizia
esistenziale, e forse anche divina, che fa una specie di patto col
diavolo, come il giovane Mussolini di Vincere sfidava i fulmini divini.
Qui l’interiorità diventa un campo d’azione di immagini, anzi quasi il
racconto di come la tv, per un bambino tra anni 60 e 70, sostituisca la
madre e forse perfino l’inconscio. La parola “anima”, assai cara a
Gramellini, non ha cittadinanza nel mondo di Bellocchio.
Il
fascino dell’operazione è soprattutto scoprire come uno stesso episodio o
personaggio, passando dal libro al film, assuma significati e toni
completamente diversi. È come se Bellocchio avesse voluto sabotare la
storia, contraddirla, come facevano certi registi hollywoodiani alle
prese con i generi. Smorza ogni tentazione mélo, a tratti sembra farsene
beffe. Dopo la scena-clou in cui si ascolta una lettera commovente
indirizzata al protagonista, una scettica Piera Degli Esposti commenta:
«E adesso cosa dovrei fare? Dovremmo abbracciarci?».
Viene il
dubbio che ci sia una vena quasi ironica nelle esagerate parrucche
indossate a un certo punto a Mastandrea e Miriam Leone, o in
quell’inizio che sembra un compendio di cinema nostalgico, con mamma e
figlio che ballano circondati da oggetti vintage.
Il film perde
interesse quando il protagonista cresce, tra mondo del giornalismo e
storie d’amore. Se certe sequenze hanno una spiazzante efficacia
(l’incontro con una specie di Raul Gardini interpretato da Fabrizio
Gifuni), altre potrebbero essere eliminate senza danno, come la
parentesi nella guerra dei Balcani. Nuovamente intenso però il finale,
che ricorda quello di Buongiorno, notte capovolto (e di più non
sveliamo), ed è coerente con il Bellocchio degli ultimi anni, che non
vuole più uccidere i padri e le madri, ma solo «lasciarli andare».