Repubblica 13.5.16
Il regista:“Rivedo me stesso in quel giornalista fragile”
intervista di Arianna Finos
M’interessa analizzare il racconto televisivo degli anni Sessanta e Settanta
Marcio in direzione contraria: ho bisogno di riflettere e approfondire
CANNES
PER Marco Bellocchio, 76 anni, essere a Cannes è un dovere. «A
trent’anni ti guida la curiosità, ora è solo lavoro. Ma io credo nella
serietà del lavoro». Tra poco una macchina lo porterà all’incontro con
il pubblico della Quinzaine des réalisateurs, la sezione di cui Fai bei
sogni è il film d’apertura. «Uscirà in autunno: faremo tesoro delle
reazioni che riceveremo qui a Cannes».
Qual è stata la genesi di “Fai bei sogni”?
«Semplice.
Mi hanno proposto il film tratto dal libro di Gramellini. L’ho letto e
vi ho trovato una tragedia umana che mi ha coinvolto. La storia di un
bambino, di un piccolo borghese in una città del Nord, dentro una storia
che è anche quella dell’Italia e della tv: sempre più spesso mi
interessa mettere insieme lastoria del Paese con il racconto televisivo
di quegli anni. Fondere linguaggi caratterizza la forma, lo stile di
questo film».
Che tipo di connessione personale vi ha trovato?
«Nel romanzo ho visto qualcosa che mi rappresentava profondamente».
Il rapporto con la madre era al centro di “I pugni in tasca”.
«In quel film c’era la madre buttata nel burrone, qui la madre è quasi santificata. Perché ne
I
pugni in tasca Alessandro uccide la madre? Perché questa madre non gli
da nulla, non gli risponde, è cieca. Con la mamma di Fai bei sogni
Massimo ha una compenetrazione assoluta. Sono due rapporti opposti, due
assoluti che si avvicinano. Perciò mi stupisco quando mi chiedono “Ma
perché ha fatto un film sul libro di Gramellini?” Rispondo: ma che ve ne
importa? Mi interessava questa storia. Questo è un film molto sentito
di cui mi assumo piena responsabilità».
Rispetto al libro c’è un ritratto dei giornalisti più cinico.
«Io
non ho lo stesso sguardo dei giornalisti, anche se sulla vostra
categoria ci sarebbe molto da dire. Bisognerebbe fare un film
sull’estremismo e la superficialità della vostra tragica professione. Ho
sintetizzato la dimensione disumana del giornalismo in un paio di
momenti: la fortuna di trovarsi nell’attimo in cui succede una vicenda
tragica durante Tangentopoli. E nell’essere a Sarajevo e fotografare un
bimbo impegnato in un videogioco vicino alla madre morta. Quella scena
racconta che lui si è dimenticato della tragedia vissuta. Quando un
dettaglio gliela rammenta, entra in tilt. Ma non è un film sul
giornalismo».
Però sul giornalismo qualcosa dice. Perché è una professione tragica?
«I
giornalisti sono obbligati a correre dietro all’attualità, mentre
invece io marcio in direzione opposta. È il mio destino: ho bisogno di
riflettere, approfondire. Invece voi siete obbligati spesso a scrivere
la prima cosa che vi viene in mente. E spesso non è quella più
profonda».
La questione che ha accompagnato il successo del libro,
che il film ripropone, è il bisogno di raccontare qualcosa di profondo e
privato e il modo in cui gli altri percepiscono l’uso di questi
sentimenti.
«Nel film la lettera che parla della madre ha grande
successo: in quel momento Massimo è sincero, ma nello stesso tempo ha
paura di aver esagerato in sentimentalismo. Una signora alla festa parla
delle “meravigliose ovvietà che lei ha detto”. L’editorialista cinico
sentenzia: ”Guarda che il libro Cuore ti fa un pippa”. C’è qualcosa di
vero, in questo, e fa parte della ricchezza, della fragilità,
dell’ambiguità che io sento rispetto al personaggio. Che si chiama
Massimo ma non è Gramellini».