Repubblica 12.5.16
Il nuovo confine del diritto d’amare
di Michela Marzano
DOPO
trent’anni di attese, silenzi, smarrimenti e voltafaccia, anche in
Italia, oggi, abbiamo finalmente una legge sulle unioni civili. Colmando
così un incomprensibile vuoto normativo.
UN VUOTO normativo che
aveva per troppo tempo impedito al nostro Paese di accompagnare la vita
delle persone omosessuali verso un orizzonte di libertà, dignità e
uguaglianza. Per trent’anni, ogni qualvolta si iniziava anche solo a
parlare della possibilità di permettere alle persone omosessuali di
condividere gli stessi diritti e gli stessi doveri delle persone
eterosessuali, il processo legislativo si bloccava. Pacs, Dico, Cus,
Didoré: sono tante le sigle dei progetti di legge che si sono susseguiti
in Parlamento, e dietro i quali si nascondono migliaia di ore di
discussione prima che le proposte si impantanassero e morissero,
lasciando senza speranza centinaia di migliaia di nostri concittadini
che aspettavano con ansia che la politica facesse il proprio dovere. In
nome dell’uguaglianza di tutte e di tutti, indipendentemente
dall’orientamento sessuale. Ma anche in nome della pari dignità e della
comune umanità. Nonostante i molteplici pronunciamenti della Corte
Costituzionale. Nonostante persino la condanna dell’Italia, nel 2015, da
parte della Corte europea dei diritti dell’Uomo.
Oggi, dunque, si
colma finalmente una lacuna. Sperando che possano cicatrizzarsi le
ferite di coloro che, da anni, aspettavano che venisse riconosciuto il
proprio diritto di amare e di costruire una famiglia. Tutto bene,
allora? Purtroppo no. Visto che, ancora una volta, si è dovuto scendere a
compromessi. E che invece di ancorare la legge all’articolo 29 della
nostra Costituzione — come accade per il matrimonio — l’unione civile
viene definita come una “specifica formazione sociale” e trova il
proprio fondamento nell’articolo 2 e nell’articolo 3 della Costituzione
che assicurano la protezione dei diritti inviolabili dell’uomo e
affermano il principio costituzionale di uguaglianza. Arrivando così al
paradosso che due persone omosessuali che stipulano quest’unione civile,
pur avendo accesso alla quasi totalità dei diritti e dei doveri di due
coniugi, non potranno essere considerati una famiglia. In che senso? Nel
senso che, nel testo, sono stati chirurgicamente espunti tutti i
riferimenti, a parte quello presente al comma 12, alla “famiglia” e alla
“vita familiare”. Fino alla beffa non solo di eliminare l’espressione
“dovere di fedeltà” — come se l’amore omosessuale, per natura, fosse
incapace della stessa profondità, continuità e unicità dell’amore
eterosessuale — ma anche di lasciare i figli e le figlie delle persone
omosessuali privi della protezione giuridica necessaria al proprio
benessere e alla propria serenità. Perché non riconoscere lo statuto di
“famiglia” a tutte quelle coppie, con o senza bambini, che sono già da
tempo “famiglie”, costruiscono come qualunque altra coppia eterosessuale
un progetto di vita familiare, affrontano le difficoltà della vita come
chiunque, crescono e accudiscono i propri bambini e le proprie bambine
come qualunque padre e qualunque madre? Certo, c’è ancora chi immagina
che esista un’unica definizione di famiglia e che, citando a sproposito
l’articolo 29, continua a ripetere che la famiglia sarebbe sempre e solo
una “società naturale”. La nostra Costituzione, però, non definisce
affatto la famiglia come un’“entità naturale”. La nostra Costituzione
parla della famiglia come di una “società naturale fondata sul
matrimonio”, sganciando attraverso quest’ossimoro la famiglia, come
spiegò all’epoca Aldo Moro, dalla dipendenza e dalla tutela dello Stato
cui era stata invece sottoposta durante il ventennio fascista. Perché
allora far finta che queste famiglie non siano famiglie, illudendosi che
se qualcosa non esiste all’interno di una legge allora non esiste
affatto? Perché negare protezione e serenità a tutte quelle bambine e a
tutti quei bambini che vivono nelle famiglie arcobaleno e che
continueranno a esistere anche se la legge li ignora? Modellare l’unione
civile sul matrimonio non avrebbe voluto dire togliere valore al
matrimonio, come hanno sostenuto in molti. Avrebbe voluto dire
riconoscere alla vita familiare omosessuale la dignità che le è propria,
senza discriminare.
Certo, lo ribadisco: questa legge è
importante. Anzi, importantissima. Visto che arriva dopo trent’anni di
vuoto legislativo e di battaglie perse. Visto che a partire da oggi
tante persone potranno veder riconosciuti i propri diritti e la propria
dignità. Visto che, anche culturalmente, si tratta di un messaggio
importante indirizzato, con la forza simbolica della legge, a tutti
coloro che continuano a immaginare che l’omosessualità sia un difetto,
una devianza o una menomazione. L’omosessualità è solo un orientamento
sessuale, diverso da quello eterosessuale ma del tutto equivalente. È
solo una delle tante differenze che caratterizzano ognuno di noi e che
non può e non deve impedire a una persona di essere considerata uguale a
un’altra in termini di dignità, di opportunità e di diritti. Da oggi,
sarà più difficile non vergognarsi quando anche solo l’idea di insultare
una persona omosessuale dovesse sfiorare la mente di chi pensa che
esista un unico modo di essere o di amare. Era il minimo che potesse
fare il nostro Paese, anche per tutti coloro che, dopo anni di
battaglie, non sono più tra noi e non potranno festeggiare questo
momento. Come diceva però il Presidente Barack Obama nel 2013, il nostro
viaggio non sarà concluso finché i nostri fratelli gay e le nostre
sorelle lesbiche non sanno trattati come chiunque altro di fronte alla
legge. Se siamo stati creati uguali, anche l’amore con cui ci leghiamo
l’uno all’altro deve essere uguale.