Repubblica 10.5.16
Dimitar Josifov Pešev
Cambiare il mondo è un gesto individuale
di Maurizio Ferraris
Il realismo è la denuncia delle trasformazioni sociali che si vorrebbero realizzare in poltrona o in panciolle
Non esiste una natura umana perfetta e poi, chissà come alienata da entità vaghe, il Capitale, la Tecnica, la Storia
Il
 caso di Dimitar Josifov Pešev, il “giusto” che con una lettera al 
premier bulgaro salvò decine di migliaia di ebrei Un esempio di come il 
bene o il male si perseguano con azioni reali e non soltanto con il 
pensiero
Dimitar Josifov Pešev, uomo senza qualità e senza 
eroismi, politico di seconda fila in una piccola nazione (era 
vicepresidente del Parlamento bulgaro), aveva accettato senza obiezioni 
le leggi antisemite introdotte nel suo Paese, non aveva firmato proteste
 o manifesti. Ma quando, il 7 marzo 1943, apprese che stava per essere 
avviata la deportazione di 48 000 ebrei, che lui non aveva mai creduto 
possibile, scrisse al primo ministro denunciando il fatto, riuscì a 
ottenere la firma di altri 43 parlamentari, e suscitò uno scandalo che 
costringerà lo zar di Bulgaria a resistere alle richieste dei nazisti.
Scriveva
 Pešev: «Non possiamo credere che ci siano dei piani per deportare 
questa popolazione dalla Bulgaria, come suggeriscono alcune voci a danno
 del governo. Tali misure sono inammissibili, non solo perché queste 
persone — cittadini bulgari — non possono essere espulse dalla Bulgaria,
 ma anche perché ciò avrebbe serie conseguenze per il Paese. Sarebbe 
un’indegna macchia d’infamia sull’onore della Bulgaria, che 
costituirebbe un grave peso morale, ma anche politico, privandola in 
futuro di ogni valido argomento nei rapporti internazionali».
Nessun
 ebreo sarà deportato dalla Bulgaria. La disubbidienza non basta, e la 
resistenza si deve trasformare in esemplarità: non esiste una natura 
umana perfetta e poi, chissà come, alienata da entità numinose e vaghe 
(il Capitale, la Tecnica, la Storia). Ciò che esiste sono singoli 
esemplari di umanità per il bene e per il male — Caracalla che estende 
la cittadinanza romana agli uomini liberi dell’Impero, Eichmann che 
organizza il traffico ferroviario verso i Lager, Kohl che decide che la 
Germania si faccia carico dei costi dell’unificazione. E tanti esempi 
che non sono consegnati alla storia, e che fanno parte del modo in cui 
ognuno agisce e pensa, spesso generando difficoltà agli psicoanalisti.
Tra
 i primi e i secondi ci sono storie intermedie, quelle degli uomini 
comuni come Pešev, un eroe alla Spielberg, come Schindler o il Donovan 
del Ponte delle spie. Il suo caso è l’esemplificazione del principio 
secondo cui lo statuto morale di una persona è determinato dal suo 
rapporto con norme che non sono morali ma pragmatiche e storiche, ed è 
in relazione a queste che bisogna impegnarsi moralmente. Ecco perché 
quelli come Pešev sono stati chiamati “Giusti”: non eroi ma persone 
normali che hanno scelto; è questo credo a introdurre la giustizia come 
responsabilità di fronte al mostrarsi del reale. Cercare invece la 
perfezione morale nella purezza delle proprie intenzioni, che hanno la 
disastrosa tendenza a trasformarsi in ideali, è confermare il detto 
secondo cui la strada dell’inferno è lastricata di buone intenzioni. E 
se ci fosse stato un Pešev in Italia, in Francia, in Polonia, in Olanda?
 E se Pešev fosse stato persuaso che la vera azione e la vera pietà sono
 quelle del pensiero? Se invece che una lettera al primo ministro avesse
 scritto un romanzo o annotato un pensiero in un moleskine, o su un 
quaderno nero à la Heidegger?
“Realismo” non significa 
semplicemente sostenere che esistono tavoli e sedie: questo lo sanno 
anche gli antirealisti, sebbene poi si ostinino a sostenere che non sono
 tavoli né sedie in sé ma tavoli e sedie per noi. Meno che mai vuol dire
 che accertare la realtà significhi accettarla, rinunciando alla 
trasformazione. È vero il contrario. La trasformazione, o la 
rivoluzione, è possibile e doverosa, ma richiede azioni reali, e non 
semplici pensieri. Il realismo è denuncia delle rivoluzioni fatte solo 
nel pensiero, delle rivoluzioni in poltrona e in panciolle. Pešev non 
era un ribelle di professione. Con la sua azione teoricamente semplice 
ma praticamente coraggiosa, ha provato il discontinuo: che la libertà 
esiste, e ha mostrato la possibilità dell’impossibile, la fattibilità 
reale di qualcosa che non ha ancora avuto luogo. Qualcosa che è “fuori 
dagli schemi”.
È importante che l’azione esemplare sia 
individuale. Non c’è bisogno di sviluppare un culto degli eroi alla 
Carlyle, imboccando la strada che porta al superuomo e alle fanfaronate 
di Zarathustra. Basta che l’azione sia espressione di un individuo prima
 che di un’idea e di un imperativo categorico — presentandosi come una 
infrazione delle regole, come una sorpresa affine al motto di spirito 
piuttosto che come l’attuazione di un programma: al limite (e può 
bastare e avanzare) come l’«avrei preferenza di no» di Bartleby lo 
scrivano.
È necessario emanciparsi? È giusto ribellarsi? Dipende. 
Guidare la moto senza casco è un atteggiamento ribellistico, e chi ha 
posteggiato l’auto in terza fila è anche lui a suo modo un ribelle, 
senza gli attributi di nobiltà feudale che Jünger attribuisce a questa 
parola. Quanto poi all’emancipazione, è anzitutto emancipazione dalla 
stupidità, ma ovviamente non basta. Dopo aver pensato e ragionato, si 
prende comunque una decisione, che si rivela indipendente da tutti i 
calcoli che l’hanno preceduta, perché, d’accordo con Kierkegaard, 
«l’istante della decisione è una follia»: è per l’appunto la sospensione
 del continuum dei ragionamenti, l’introduzione di un discontinuo. «Il 
mondo è fuori dai gangheri ( out of joint) », dice Amleto — e proprio 
perché è il mondo lì fuori a essere fuor di sesto che ho lo stimolo (che
 certo può essere sbagliato o catastrofico) a rimetterlo in sesto.
IL
 LIBRO In questa pagina un’anticipazione dal nuovo saggio di Maurizio 
Ferraris, Emergenza (Einaudi, pagg. 144, euro 12) in libreria da oggi
 
