il manifesto 10.5.16
Il piombo degli anni
Intervista. Incontro con Wienke, sorella di Ulrike Meinhof
di Ron Augustin
BERLINO
Ulrike Meinhof moriva in carcere 40 anni fa, a 41 anni. Per le
autorità, un suicidio. Per i militanti e i movimenti, un’omicidio di
Stato su cui ancora si discute. Ulrike faceva parte della Rote Armee
Fraktion. Quando morì, sua sorella Wienke aveva 44 anni. Le due donne
avevano ciascuna la propria storia politica, e la condividevano. Dopo
l’arresto di Ulrike nel 1972, Wienke portò avanti per decenni l’impegno a
favore dei detenuti della Raf, contro l’isolamento carcerario e per la
loro liberazione. In questa intervista con Ron Augustin, parla
dell’evoluzione politica, della prigionia e della morte di sua sorella.
Un
documentario su Patrice Lumumba, «Death Colonial Style», diretto da
Thomas Giefer, mostra che ci vollero quattro decenni per rivelare le
circostanze precise della sua morte. Quando hai visto l’opera di
Giefer, compagno di studi di Holger Meins, hai detto che avrebbero
potuto essere necessari 40 anni anche per sapere che cosa era accaduto a
Stammhein. Ci sono fatti nuovi?
No. Le conclusioni della
Commissione internazionale d’inchiesta, presentate in una conferenza
stampa a Parigi nel 1979, avevano rivelato tali contraddizioni
all’interno dei rapporti ufficiali per cui ogni sforzo risultava
orientato a occultare la vicenda. Non voglio entrare nei dettagli per
l’ennesima volta, ma Ulrike si sarebbe impiccata alle sbarre di una
finestra che si trovavano dietro una spessa lastra metallica. Le foto
della polizia mostrano che il suo piede sinistro era ancora appoggiato
su una sedia quando fu trovata. La corda alla quale era appesa era così
fragile e lunga che avrebbe dovuto rompersi, o la testa avrebbe dovuto
scivolare fuori nel salto. L’assenza di sanguinamento e altri indizi
sembravano indicare un intervento esterno, e la Commissione
internazionale di inchiesta concluse che mia sorella doveva già essere
morta quando fu impiccata. Posso fare ipotesi. Ma c’era una scala di
soccorso del tutto indipendente dal circuito carcerario, che
dall’esterno portava vicino alla sua cella, al settimo piano. Chiunque
avrebbe potuto arrivarci.
Come sei venuta a sapere della sua morte? Hai potuto vederla ancora?
Il
9 maggio alle 9 del mattino i mezzi di informazione riferivano che
Ulrike si era suicidata. Con l’avvocato Axel Azzola mi precipitai a
Stammhein. Al nostro arrivo il corpo era già stato portato via. Gudrun
Ensslin avrebbe voluto vederla, ma il procuratore federale non glielo
permise. Io dovetti identificarla prima dell’autopsia, ma a parte questo
non ci fu un’altra occasione. Azzola ottenne di parlare brevemente con
Gudrun, che vidi per la prima volta. Era così sconvolta che a malapena
poteva parlare. Non ricordo esattamente, ma parlammo del suo ultimo
incontro con Ulrike, il giorno prima alla finestra; avevano scherzato
insieme. Lo stesso giorno ci fu una conferenza stampa degli avvocati, a
Stoccarda. Ci andai per spiegare che Ulrike mi aveva detto chiaramente,
quando ancora si trovava a Colonia-Ossendorf: «Se muoio in carcere, vuol
dire che mi hanno uccisa; io non mi ammazzerò mai». All’epoca si
trovava ancora in un’ala morta, totalmente isolata.
In seguito il
procuratore Kaul parlò di tensioni fra i detenuti che queste avrebbero
«spinto l’ideologa della Raf verso la morte». I media ricevettero brani
di lettere che avrebbero provato questa ipotesi.
Sì, pubblicarono
brani di lettere vecchi di quasi un anno, frutto di una discussione
difficile, che poi si era conclusa. Gudrun parlava di un «processo di
consolidamento» prodottosi all’interno del gruppo. Brani
decontestualizzati e parzialmente falsificati. I prigionieri
autorizzarono il loro avvocato a divulgare la corrispondenza nel suo
insieme. Ma i media non rettificarono. Negli ultimi giorni della sua
vita Ulrike, con gli altri a Stammheim, lavorava ai testi per il
processo. Quando, il 4 maggio 1976, gli altri affrontarono il tema del
ruolo della Germania nella catena dell’imperialismo,Ulrike non era nella
sala delle udienze ma in una cella per visitatori nel sottosuolo, e
preparava la sua prossima dichiarazione, con l’avvocato Heldmann. La
petizione, sul ruolo di Willy Brandt e della socialdemocrazia teesca
nella guerra del Vietnam, fu poi esposta durante il processo da Andreas
Baader. Il 6 maggio, Ulrike ebbe con l’avvocato Oberwinder una, per
dirla con le parole di quest’ultimo, «discussione vivace nel corso della
quale la signora Meinhof aveva esposto il punto di vista del gruppo», e
il 7 maggio, due giorni prima della sua morte, discuteva con l’avvocato
italiano Giovanni Capelli sulla posibilità di costruire una difesa
internazionale per i prigionieri politici. Già nel 1971, quando Ulrike e
gli altri erano ancora ricercati, si parlava di «tensioni» all’interno
del gruppo, per diffamarla. Lei incarnava «la voce della Raf» e sono
ancora molti quelli che amano presentarla come una «plagiata», così da
«salvarla per la sua appartenenza borghese», come ha scritto
recentemente un giornale tedesco. Vogliono dimenticare che era una
comunista, con una lunga storia politica iniziata negli anni ’50. Le
versioni ufficiali non ebbero mai presa su di me perché io e mia sorella
eravamo molto vicine.
Il vostro ultimo incontro?
La mia
ultima visita in carcere fu nel marzo 1976. Dopo la sua morte andai a
far visita a Jan Raspe, Gudrun e Andreas. Là, nel quadro del lavoro per
la creazione di una Commissione internazionale di inchiesta, si sviluppò
con loro un rapporto di fiducia. Mi era concessa ogni volta un’ora e
mezza di visita con ciascuno di loro, mattina, pomeriggio e il giorno
dopo. Questo voleva dire che i prigionieri potevano parlare fra loro di
quello che avevano discusso con me e che non si doveva ripetere tutto
ogni volta. Diverse volte Gudrun fu l’ultima, allora ci si diceva: bene,
avete già parlato di tutto, racconta, e come va, e via dicendo.
Andavamo d’accordo. E’ anche per questo che le ridicole distorsioni sui
media mi colpiscono tanto. Avevo a che fare, semplicemente, con persone
che in una situazione concreta si comportavano in modo conseguente.
Questo fu molto utile.
La tua prima visita in carcere avvenne una
settimana dopo l’arresto di Ulrike. Ti raccontò quel che aveva dovuto
subire prima che alsuo avvocato fosse permesso di vederla?
Le
visite avvenivano sempre alla presenza di funzionari dei servizi
sicurezza dello Stato. C’era spesso Alfred Klaus della Polizia federale,
il «poliziotto di famiglia», quello che fece i primi «psicogrammi» su
membri della Raf. Di molti temi non si poteva parlare perché ci
minacciavano di troncare la visita. Ma fu il suo avvocato a dirmi che
aveva potuto vederla solo quattro giorni dopo l’arresto, dopo una
quantità di perquisizioni corporali umilianti sotto la minaccia di
un’anestesia forzata con l’etere. Di certo era stata anche percossa,
aveva molti lividi. Jutta Ditfurth ha descritto tutto nella sua
biografia. Ulrike era a Colonia-Ossendorf in un’ala morta, cioè in
totale isolamento, anche acustico, senza la presenza di altri
prigionieri. L’isolamento come detenzione individuale era conosciuto già
ai tempi della messa al bando del Kpd, il Partito comunista tedesco.
Sapevamo dai comunisti, imprigionati negli anni ’50, che si ricorreva a
segnali, bussando sui muri e sui tubi, per comunicare da una cella
all’altra. Ma Ulrike era sola in quell’ala, non aveva nessuno con cui
comunicare. Le parlavo delle mie esperienze con persone con disabilità
gravi, del loro isolamento nella società, e della loro lotta, perché
l’isolamento incide sulla persona in modo terribile. Allora, dopo essere
stata nell’ala morta per otto mesi e successivamente per altre
settimane, mia sorella scrisse un testo per descrivere quelle che
succedeva là dentro; iniziava con la frase «la sensazione che la testa
esploda…». Poi il procuratore federale cercò di farla trasferire in uno
stabilimento psichiatrico per una verifica del suo stato mentale. Fu
anche ordinata una scintigrafia del suo cervello sotto anestesia
forzata, con il pretesto che Ulrike aveva un tumore cerebrale:
l’obiettivo era provare la sua alienazione mentale o giustificare un
intervento chirurgico. In realtà, quello che nei media è presentato ogni
volta come un tumore cerebrale era una tumefazione inoffensiva che era
stata individuata e curata mentre lei era incinta, nel 1962. Il
procuratore federale lo sapeva benissimo, ma utilizzò la cosa per
mettere in dubbio la salute mentale di Ulrike. Questi tentativi di
psichiatrizzazione furono bloccati solo da una grande mobilitazione
popolare in tutto il paese e anche all’estero. Si è spesso ripetuto che
Ulrike si era fatta plagiare e manovrare da altri, in particolare da
Andreas. Ridicolo: era lei ad avere l’esperienza politica più lunga, era
stata uno dei portavoce più importanti del movimento degli studenti, un
percorso più solido di quello di molti altri all’epoca. E aveva un
carattere fortissimo.Nella clandestinità e in carcere era rimasta la
stessa, aveva scritto, lottato con gli altri. I cliché nei media sono
sempre gli stessi, pre-confezionati 45 anni fa dal suo e marito Röhl e
dall’amico di lui, Stefan Aust, per cancellare in lei la «voce», cioè
l’identità politica del gruppo.
Eri direttrice di una scuola
speciale; nel tuo lavoro o altrove, non hai mai avuto problemi per via
del rapporto con tua sorella?
Sì, certo. Nel periodo in cui Ulrike
era ricercata, fra il 1970 e il 1972, la polizia mi sorvegliava in
permanenza. Mi seguivano, anche ostentatamente, ovunque andassi. Due
volte, Alfred Klaus della polizia federale venne a intimarmi di
incontrare mia sorella per convincerla a costituirsi, altrimenti sarebbe
stata uccisa. In seguito, il partito dei cristiano-democratico Cdu aprì
la campagna elettorale con l’attacco alla riforma scolastica del
partito socialdemocratico Spd citando come esempio deteriore la sorella
di Ulrike Meinhof. Non ero nell’Spd, ma era chiaro che accusavano il
governo locale (socialdemocratico) di non avermi cacciata dal posto di
lavoro; è andata avanti così per anni. Evidentemente, erano messe in
discussione anche le mie idee politiche. Ero di sinistra, avevo
elaborato una critica di fondo rispetto alla pedagogia applicata alle
persone disabili, ma ero anche solidale con mia sorella. Non ho mai
preso le distanze da lei. Durante lo sciopero della fame dei prigionieri
politici, nel 1974, fui arrestata una volta, per il mio lavoro nei
comitati di sostegno. La notizia passò alla televisione; mezz’ora più
tardi il presidente del consiglio dei genitori, un ferroviere, venne a
casa mia per vedere se era tutto a posto, e convocò una riunione dei
genitori, i quali denunciarono il trattamento riservato alla direttrice
della scuola dei loro figli. C’era questo, all’epoca, la solidarietà. Ed
era certo un’altra spina nel fianco per le autorità scolastiche. Alla
fine ho scelto il pre-pensionamento. Sono stati contenti di sbarazzarsi
di me. Dopo la conferenza stampa della Commissione internazionale
d’inchiesta a Parigi nel 1979, non mi fu più consentito di visitare i
prigionieri, fino al 1992: mettevo a repentaglio «la sicurezza e
l’ordine dell’istituto penitenziario».
Come parlavate tu e Ulrike
dei rispettivi percorsi politici? Eri riuscita a cogliere i momenti
decisivi che avevano portato alla Raf?
Ognuna aveva la propria
storia politica, ma con molti scambi. Per esempio, lei aveva scritto e
fatto ricerche sui bambini che avevano bisogno di educazione speciale, e
quindi era venuta nella mia scuola. Fu di grande aiuto per farmi
ottenere tutti i libri dei pedagoghi degli anni 1920, perché esistevano
solo riproduzioni non autorizzate e lei poteva procurarsele. Entrambe ci
politicizzammo nel movimento contro il riarmo della Germania;
partecipammo alla fondazione del partito Dfu, l’Unione tedesca per la
pace, un tentativo concreto di creare un’ampia coalizione di sinistra.
Poi, Ulrike aderì per cinque anni al Kpd, il partito comunista messo al
bando. In seguito, l’organizzazione studentesca Sds, Associazione degli
studenti tedeschi socialisti, si radicalizzò portando alla creazione
dell’Apo, l’opposizione extraparlamentare degli anni 1960. Ulrike lasciò
gli studi per potersi dedicare interamente al giornalismo, soprattutto
nella redazione della rivista Konkret, ma anche presso altre riviste e
per la radio e la televisione. Era una delle voci più importanti del
movimento studentesco. Tutti si contendevano i suoi articoli, frutto di
ricerche accurate. Quando ci incontravamo noi due, parlavamo dei nostri
figli, ma anche della situazione politica, dei movimenti di liberazione,
del Vietnam. Nel febbraio 1968 si tenne il Congresso internazionale sul
Vietnam. Ulrike si era trasferita a Berlino da quattro giorni. Nel mese
di ottobre conobbe Andreas e Gudrun, al processo per l’incendio di due
grandi magazzini a Francoforte. Mi raccontò quanto fosse stata colpita
dale loro idee politiche. Con Konkret non aveva più molto a che fare,
come aveva spiegato in uno dei suoi ultimi articoli, con il titolo
«Columnism». Lavorava ancora al film Bambule, faceva parte di un
comitato di quartiere nel sobborgo berlinese Märkische Viertel, e
soprattutto era impegnata nel dibattito a livello internazionale. Non
sapevo che Ulrike stesse partecipando alla liberazione di Andreas
Baader. Mi aveva raccontato che era stato arrestato e che in un modo o
nell’altro doveva tornare libero. Quattro settimane prima di entrare in
clandestinità, venne a chiedermi di occuparmi dei bambini se le fosse
successo qualcosa. E così, quando uscì la notizia della liberazione di
Andreas, immaginai che lei avesse a che fare con la vicenda, e corsi a
casa per essere pronta a ricevere i suoi figli. Le cose poi andarono in
un altro modo rispetto a loro, ma in ogni caso la sua decisione per la
clandestinità era ormai chiara. In seguito, Ulrike motiva questo passo
spiegando che per lei «l’opposizione politica e l’organizzazione di una
struttura clandestina coincidono».
Traduzione di Marinella Correggia